Il significato della sinagoga di Hurva

Due volte distrutta e ricostruita, la Hurva è simbolo della perseveranza del ritorno degli ebrei

Editoriale del Jerusalem Post

image_2778Si è tenuta domenica una cerimonia di consacrazione della sinagoga di Hurva (letteralmente: “rudere”), che sorge nel cuore del Quartiere Ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme.
Molto più di una semplice casa di preghiera, la sinagoga Hurva è stata teatro di eventi fondamentali nella storia della ricostituzione della sovranità ebraica: la visita a Gerusalemme di Theodor Herzl, una cerimonia di arruolamento della Legione Ebraica di Ze’ev Jabotinsky, gli onori resi al primo Alto Commissario britannico, il filo-sionista sir Herbert Samuel.
La sinagoga di Hurva rappresenta forse più di ogni altro luogo il desiderio del popolo ebraico di tornare alla sua terra patria. Costituisce la prova concreta che l’ebraismo non può essere ridotto solamente a una fede religiosa astratta priva di aspirazioni nazionali come alcuni hanno cercato di sostenere, in modo particolare fra gli ebrei tedeschi nel XIX secolo e fra gli ebrei antisionisti contemporanei.
Se il Muro Occidentale (“del pianto”) è stato il punto focale delle preghiere per il riscatto, la Hurva è stata il centro dell’attivismo ebraico per mantenere una presenza in Terra d’Israele.
Già nel II secolo e.v., meno di cento anni dopo la distruzione del Secondo Tempio e la fine della sovranità ebraica, sorgeva una sinagoga nel sito della Hurva. Durante il periodo bizantino è qui che si interrompeva la strada che dalla principale spiazzo del mercato conosciuto come il Cardo conduceva al Quartiere Ebraico e al Monte del Tempio. Nel XIII secolo venne chiamata “il complesso askenazita” da ebrei europei che erano “tornati” alla loro patria.
Ma gli ebrei dovettero fare i conti con una costante opposizione. A Gerusalemme, che si sapeva rivestire un significato religioso speciale per gli ebrei, venne rigorosamente applicato un decreto musulmano. Secondo lo storico Arie Morgenstern, i musulmani volevano “impedire, non volesse il cielo, il realizzarsi delle speranze ebraiche relative alle profezie che annunciavano il ritorno a Sion e la ricostruzione di Gerusalemme”.
Nondimeno, alla fine del XVII secolo la dirigenza politica musulmana concesse agli ebrei il permesso di costruire, dopo che la sinagoga askenazita allora esistente era crollata. Appena prima del 1700, guidato dalla fede in una imminente redenzione messianica, il rabbino Giuda il Pio riunì circa 1.500 seguaci da Moravia e Germania e partì alla volta di Gerusalemme per erigervi una casa di preghiera. Ma dopo l’improvvisa morte del rabbino, i suoi demoralizzati seguaci furono incapaci di fare fronte ai loro troppi debiti. Nel 1720, creditori musulmani furenti appiccarono il fuoco alla sinagoga, espulsero la comunità askenazita e ne proibirono il ritorno.
Ma le aspirazioni ebraiche non potevano essere spente. Un secolo più tardi sbocciò un nuovo revival nazional-religioso, sotto la leadership del rabbino Menachem Mendel di Shklov, uno dei più illustri allievi del Gaon di Vilna. Mendel vide nella ricostruzione di Hurva un significato cabalistico: un tikkun (opera di riparazione) che avrebbe condotto alla ricostruzione dell’intera città, preludio dell’avvento del Messia.
Nel 1855 iniziarono i lavori, grazie all’assistenza della diplomazia britannica e austriaca, a vari scombussolamenti geopolitici e ai fondi elargiti da Sir Moses Montefiore, dai Rothschild e da comunità ebraiche tanto lontane quanto quelle di San Pietroburgo, di Bagdad, del Cairo e dell’India. L’architetto dello stesso sultano ottomano, Assad Effendi, concepì un audace progetto che spiccava nel profilo della città in un’epoca in cui le case di preghiera dei non-musulmani dovevano fare mostra di assoluta deferenza nei confronti delle moschee.
Dall’epoca in cui fu completata, nel 1864, sino a quando venne fatta saltare in aria dalla Legione Giordana durante la guerra d’indipendenza del 1948, quella di Hurva fu senza dubbio la sinagoga più rilevante di tutta la Terra d’Israele. Antesignana della sovranità ebraica, la sua ricostruzione venne a coincidere con un rinnovato afflusso di ebrei (nel 1860 a Gerusalemme c’era già una maggioranza ebraica), mentre la sua distruzione contrassegnò la nascita dello stato ebraico.
Per diciannove anni, fino alla guerra dei sei giorni, la sinagoga Hurva giacque in rovina desolata. Ed anche dopo che Israele ne riguadagnò il controllo sulla Città Vecchia e garantì la libertà di culto a tutte le fedi, il timore di turbare il delicato equilibrio religioso paralizzò gli sforzi volti a ricostruire i “ruderi”, finché venne raggiunto una accordo in base al quale l’edificio di Assad Effendi sarebbe stato ripristinato così com’era, dunque senza alterare lo status quo.
Per due volte distrutta e per due volte ricostruita, la Hurva è simbolo della tenace perseveranza del popolo ebraico nel tornare al suo legittimo paese contro ogni realistica probabilità. Chiamare “rudere” qualcosa che è edificato rivela una ostinata riluttanza ad accettare la realtà presente come indiscutibile. Questo rifiuto di farsi scoraggiare dalle battute d’arresto, questa inesauribile speranza di redenzione – che sia fisica o spirituale – è il vero segreto del miracolo costituito dallo stato ebraico.

(da: Jerusalem Post, 14.3.2010)

Nelle foto in alto: La sinagoga di Hurva nel 1948, prima e dopo la distruzione ad opera della Legione Araba di Giordania