In soli due anni

Israele è passato dal più nero pessimismo a una vera rivoluzione di dinamismo economico e politico

Da un articolo di Sever Plocker

image_915Alla vigilia del Capodanno ebraico di due anni fa, Israele era profondamente pessimista. Un sondaggio d’opinione commissionato dal quotidiano Yedioth Ahronoth registrava “un profondo deposito di disperazione nel cuore della società israeliana: siamo di fronte a una pletora di paure e una carenza di speranze”. Nell’ottobre 2003, il 73% degli israeliani credeva che non vi fosse futuro nel paese per i propri figli, il 43% si aspettava un ulteriore deterioramento della situazione economica, solo un quarto degli intervistati osava sperare che l’intifada sarebbe finita e che si potessero fare passi avanti con i palestinesi.
Nei ventiquattro mesi successivi il paese è completamente cambiato. Gli scettici sono stati sconfessati, i catastrofisti sono stati smentiti, gli inconsolabili hanno avuto torto. Ormai possiamo dirlo: gli ultimi due sono stati due anni buoni. C’è solo da sperare che ne seguano altri dello stesso tipo. L’economia ha recuperato ed è cresciuta, il terrorismo ha subito duri colpi e si è indebolito, i confini sono stati accorciati e rafforzati, i primi insediamenti senza futuro sono stati sgomberati. Grazie a un uomo chiamato Ariel Sharon, Israele si è liberato dall’isolamento, ha risollevato la testa sul fronte diplomatico, è stato abbracciato dalla comunità internazionale. Intanto, turisti e aziende straniere hanno riscoperto Israele.
Siamo diventati un paese normale: i titoli dei quotidiani nei giorni scorsi si sono occupati del divieto dell’alimentazione forzata delle oche. Siamo diventati un paese di successo: le pagine di economia si occupano del boom degli investitori. Lo stato dell’economia israeliana all’inizio del nuovo anno ebraico è uno dei migliori di tutta la sua storia.
Lasciamo parlare i numeri. Negli ultimi due anni, lo standard di vita della popolazione è salito del 10,5%. Il prodotto interno lordo è aumentato dell’11%. La produzione pro capite è cresciuta del 7,5%, i volumi d’affari del 15%, un tasso d’incremento (quasi) cinese.
In questi due anni la popolazione del paese è aumentata di 250.000 unità, sono stati creati 180.000 nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è diminuita del 18%, il settore affari business ha accresciuto l’occupazione per il 10%. Nel frattempo lo stipendio medio di un lavoratore dipendente israeliano a tempo pieno ha toccato gli 8.000 shekel al mese (circa 1.600 dollari Usa), pari a un incremento reale del 3,5%. Eppure l’inflazione non è tornata. In due anni, l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto solo del 2%.
Nonostante l’aumento del prezzo del petrolio, abbiamo beneficiato di abbondante valuta straniera. Nei due anni scorsi gli stranieri hanno investito circa sette miliardi di dollari nel settore produttivo dell’economia israeliana, mentre altri 10 miliardi di dollari venivano investiti nell’acquisto di azioni israeliane. Le esportazioni sono cresciute del 25%. Oggi Israele esporta merci e servizi per circa quattro miliardi di dollari al mese. Anche la bilancia dei pagamenti è volta al meglio: il mondo oggi ci deve 22 miliardi i dollari.
Il numero di turisti nell’estate appena trascorsa è stato quasi il doppio della misera estate 2003. Il deficit statale, che limitava l’economia, è sparito quasi completamente. A settembre di quest’anno il governo israeliano vantava un surplus di bilancio di circa 170 milioni di shekel (quasi 40 milioni di dollari). Su disposizione dell’ex ministro delle finanze Benjamin Netanyahu, lo stato si è messo a dieta: il bilancio è sceso dal 37% al 34% del PIL. Chi l’avrebbe mai creduto possibile?
Il mercato azionario riflette il miglioramento. L’indice guida è aumentato del 90% in due anni. Un’esagerazione? Non necessariamente. Nello stesso periodo gli utili delle grandi società che trattano sul mercato azionario hanno fatto un balzo del 223%. Al lordo delle tasse, hanno incassato 30 miliardi di shekel (pressappoco sette miliardi di dollari) soltanto negli ultimi sei mesi.
Abbiamo anche pagato molti meno interessi. Nel settembre 2003 la Banca d’Israele fissava il tasso di sconto al 6,5%. A quel tempo, il tasso di sconto degli Stati Uniti era all’1%. Nel settembre 2005 la Banca d’Israele ha fissato il tasso di sconto al 3,5%, pari a un quarto di punto percentuale meno del tasso di sconto americano. Insomma, l’economia israeliana è più stabile di quella degli Stati Uniti, l’era messianica dell’economia sembra arrivata. La forte moneta israeliana – il cambio dello shekel contro il dollaro sale e scende solo per piccole fluttuazioni – ha rispecchiato l’inflazione zero, il deficit zero e la fiducia degli stranieri. E rispecchia la rivoluzione del disimpegno da Gaza, e il nuovo orizzonte aperto dalla politica di Sharon.
Noi israeliani siamo dunque diventati più benestanti. Le disponibilità finanziarie del pubblico sono cresciute in due anni di 370 miliardi di shekel (circa 80 miliardi di dollari), pari a un aumento all’incirca del 30%.
Ma su un fronte abbiamo fallito: la riduzione della povertà. Il rapporto 2004 sulla povertà, appena pubblicato, disonora la società israeliana. Un cittadino su quattro vive in condizioni di povertà. Un bambino su tre vive in una famiglia povera. Più di un milione e mezzo di israeliani (7,5% in più dell’anno prima) sono costretti ad arrangiarsi con un reddito al di sotto del limite di povertà.
Sarà migliorato, questo quadro tetro, nel corso dell’ultimo anno ebraico? È ragionevole presumere che il numero di poveri si sia ridotto, e che il prossimo rapporto sulla povertà mostrerà una piccola luce in fondo al tunnel. La povertà è stata messa in cima della lista delle priorità del governo, e questo è incoraggiante.
Secondo calcoli fatti dal Fondo Monetario Internazionale, la produzione pro capite quest’anno supererà la soglia dei 23.000 dollari, in termini di potere reale d’acquisto. Così, nell’arco di due anni abbiamo superato la Spagna, la Grecia e Cipro, anche se siamo ancora (molto) lontani da Irlanda e Danimarca.
Nondimeno, la prospettiva indicata da Netanyahu prima che lasciasse il ministero delle finanze – quella di diventare entro dieci anni uno dei più affluenti paesi del mondo – non sembra più tanto fantasiosa. Alla vigilia di Rosh Hashana 5766, sembra persino realistica, perché la realtà è cambiata. Ancora una volta, gli ottimisti hanno avuto ragione.

(Da: YnetNews, 4.10.05)

Nella foto in alto: la Banca d’Israele, a Gerusalemme