Incoraggiare il dialogo interreligioso saudita

Ma il tentativo di abbracciare gli ebrei escludendo gli israeliani sarebbe destinato al fallimento

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2060L’iniziativa di un dialogo inter-religioso da parte di re Abdullah dell’Arabia Saudita rappresenta uno sviluppo notevole, che merita d’essere calorosamente accolto dal popolo ebraico. Lo scorso marzo, ad un seminario a Riad su “Cultura e rispetto delle religioni”, Abdullah ha spiegato: “L’idea è quella di chiedere a rappresentati di tutte le religioni monoteistiche di sedere in fede e sincerità insieme con i loro fratelli di tutte le religioni, giacché crediamo tutti nello stesso Dio”.
L’idea, che fa seguito allo storico incontro di Abdullah con papa Benedetto XVI dello scorso novembre, va presa sul serio e incoraggiata. È assai significativo che il re di uno stato che per decenni ha promosso una versione estremista e intollerante dell’islam, abbia deciso ora di invertire il corso e combattere il mostro che finora aveva contribuito a creare.
Osama bin Laden è venuto dall’Arabia Saudita, così come la maggior parte dei terroristi dell’11 settembre. E non fu una coincidenza. L’Arabia Saudita era e rimane la sede della corrente wahabita dell’islam, la cui estrema intolleranza non ha condotto soltanto alla glorificazione dell’assassinio di massa, ma anche ad atti di barbarie contro altre religioni, come ad esempio la distruzione delle antiche statue di Budda in Afghanistan. Per cui, il fatto che il re saudita predichi dialogo e tolleranza costituisce di per sé un notevolissimo cambiamento. Anche se non è un fulmine a ciel sereno.
Un’analisi diffusa lo scorso febbraio dal Middle East Media Research Institute (MEMRI) rilevava infatti che “negli ultimi anni l’Arabia Saudita ha fatto un intenso sforzo per combattere il terrorismo e le sue basi religiose e ideologiche. Tra i risultati di questa complessiva campagna anti-terroristica si annovera la scoperta di diverse cellule terroristiche nel paese, un avvertimento del governo alla gioventù saudita affinché non di faccia coinvolgere in una jihad al di fuori del paese, nonché varie fatwe e dichiarazioni da parte di alti esponenti dell’establishment religioso secondo le quali farsi coinvolgere in una jihad al di fuori dell’Arabia Saudita costituisce una grave violazione che arreca seri danni all’Arabia Saudita e all’intero mondo islamico”. Un eminente chierico saudita ha ripudiato gli attentati suicidi in quanto anti-islamici, e lo stesso hanno fatto vari editorialisti sui mass-media sauditi. Il rapporto di MEMRI nota inoltre che le autorità saudite hanno chiesto ai predicatori di smettere di maledire ebrei e cristiani, e che il ministero dell’istruzione ha sviluppato un programma inteso a combattere l’ideologia terrorista nella scuole.
Tutte queste misure indirizzate nella giusta direzione sono state adottate dai sauditi non per un improvviso amore per il sionismo e l’occidente, bensì perché hanno capito che l’ideologia jihadista, alimentata da miliardi dei loro petrodollari, gli si è ritorta contro. I sauditi – è vero – vedono come una minaccia la spinta americana per la democrazia. Ma una minaccia ancora peggiore è data dalla continua crescita del potere iraniano, e quel potere è stato alimentato proprio dalla cultura jihadista del martirio.
La risposta degli ebrei a tutto questo deve essere certamente di incoraggiamento, pur insistendo su alcuni principi di fondo. Ad esempio, i sauditi hanno detto di essere interessati alla partecipazione di ebrei nel nuovo dialogo, ma non vogliono nessuno che sia coinvolto nell’”oppressione dei palestinesi”. Se si tratta di un termine in codice per escludere tutti gli israeliani, allora gli ebrei invitati dovrebbero rifiutarsi di partecipare. Per una ragione molto semplice: non è possibile instaurare un dialogo con il popolo ebraico che escluda deliberatamente lo Stato ebraico. Il primo passo della comprensione e della tolleranza è accettare che gli ebrei sono un popolo, che Israele è lo Stato ebraico, e che negare i diritti nazionali del popolo ebraico non solo costituisce un gesto antisemita, ma della più virulenta forma di antisemitismo presente al giorno d’oggi.
Aprirsi agli ebrei boicottando Israele sarebbe come aprirsi ai cristiani boicottando il Papa, o ai musulmani boicottando i sauditi. I sauditi devono capire che non possono dividere gli ebrei fra quelli che a loro vanno bene e quelli che a loro non vanno bene, esattamente come sostengono che non sia possibile per i musulmani. Come ha spiegato il ministro degli esteri saudita, “il Regno si impegna a servire il mondo islamico e conseguire unità e solidarietà sulla base dell’appartenenza a una sola fede: la simbiosi islamica è la via per riguadagnare lo status e l’onore dei musulmani”. I sauditi non possono chiedere che i musulmani siano uniti e al contempo cercare di dividere gli ebrei. E non possono combattere le forme estremiste della jihad e nel contempo ossequiare uno dei maggiori obiettivi di quella jihad: la cancellazione di Israele.
Il tentativo di avviare un dialogo con gli ebrei ma non con gli israeliani verrebbe giustamente visto come un classico caso di “nuovo antisemitismo”, dove l’ipotetico abbraccio degli ebrei verrebbe usato come copertura per delegittimare Israele. I sauditi, se vogliono che la loro campagna per placare la jihad abbia effetto, non devono cadere in questa trappola. E se ci cadono, non devono caderci con loro gli esponenti dell’ebraismo.

(Da: Jerusalem Post, 28.03.08)

Nella foto in alto: 6 novembre 2007, il re saudita Abdullah in visita in Vaticano, dona una spada a papa Benedetto XVI