“Inorriditi da Idlib? Eppure non è una novità, nel paese dove sono cresciuto”

I terzomondisti lo chiamavano socialismo nazionale arabo, ma era nazional-socialismo (completo di antisemitismo)

Di Akil Marceau

Akil Marceau, autore di questo articolo

La tragedia della Siria dura da sei anni e ormai fa parte della nostra dieta quotidiana globale. Non passa giorno senza che i mass-media internazionali ci ricordano di questa guerra e dei suoi orrori, da ultimo l’attacco con armi chimiche contro i civili a Idlib. Più di 320.000 persone sono state uccise, in questi anni di guerra civile, metà della popolazione è sfollata dalle proprie città o profuga fuori dal paese. Drogati di notizie catastrofiche, ma impotenti, declamiamo le nostre opinioni su questa sciagura che incarna il fallimento dell’Occidente e di quell’entità ancora denominata “comunità internazionale”. L’amministrazione Obama minacciò un intervento militare contro il regime siriano se fossero state usate armi chimiche contro la popolazione civile. La stessa minaccia venne ripetuta da Londra e da Parigi. Come sappiamo, il regime ha effettivamente utilizzato quelle armi, per la prima volta nel 2012. Di fronte all’impunità concessa dalla comunità internazionale, non solo il regime siriano ha continuato a usare armi proibite, ma il loro uso si è allargato ormai anche ai jihadisti.

Come tutti, guardo inorridito. Il dolore si somma ai miei ricordi: un vortice di immagini lontane che si sovrappongono, mescolando la realtà di ieri con quella di oggi. La Siria che conosciamo oggi, fatta di sangue fuoco e terrore, esiste da decenni. Questo era il paese della mia infanzia. Come c’era da aspettarsi, anni dopo il Medio Oriente continua ad affliggersi e non si intravedono prospettive di un futuro più luminoso.

Quando lasciai la Siria, più di trent’anni fa, il dittatore siriano Hafez Al-Assad governava il paese con il fratello come in un duumvirato. Oggi Bashar e suo fratello Maher imitano il padre, fomentando stragi e distruzioni, ma senza la raffinata arte della dittatura dei loro progenitori. Nel clan Assad, l’esercizio del potere e del terrore è un affare di famiglia.

Poster degli Assad, ad Aleppo

Ho amato il mio quartiere curdo a Damasco. La sua storia può essere fatta risalire al Saladino e il XII secolo. Arroccato sul monte Qassyion con i suoi vicoli tortuosi, si affaccia sulla città. Il profondo attaccamento che lega le persone ai loro quartieri precede il clan degli Assad e l’avvento del partito Ba’ath. Nessuno poteva portarcelo via, nonostante retate e ricorrenti colpi di stato. A Damasco, l’identità di quartiere era molto forte. Ciascuno aveva le proprie tradizioni, miti, leggende e specialità culinarie. Ciascun quartiere aveva una propria memoria collettiva, rendendolo un mondo a sé.

Nella Città Vecchia, dietro la grande moschea omayyade Bab Touma (San Tommaso) c’era la roccaforte cristiana. Il quartiere ebraico era comunemente denominato “Hay al-Yahud” e le sue grandi famiglie, i Farhi, gli Stambouli, i Liniado, hanno fatto parte per generazioni del paesaggio locale, fornendo anche banchieri e consulenti a vari governatori che si sono succeduti nel corso degli ultimi secoli. Nel mio quartiere di Akràd (plurale in arabo di curdo), le case tradizionali erano costruite attorno a cortili quasi sempre muniti di una fontana rinfrescante all’interno delle loro mura. Queste tipiche case levantine riuscivano a resistere alle costruzioni in stile sovietico che cominciavano a invadere la città e i suoi frutteti ben curati. Se l’esercito siriano veniva addestrato dai generali russi, i cementifici siriani erano gestiti da ingegneri del blocco sovietico. Al calar della notte, le case sulla collina di Akràd apparivano come stelle sopra la città.

Tuttavia, in quel clima politico soffocante, i momenti belli erano rari. Per raggiungere a piedi il mio liceo, ai piedi della collina, dovevo passare più e più volte, con mio grande disgusto, sotto al ritratto del generale Hafez al-Assad. Qui era in uniforme da generale, sulle alture del Golan. Sebbene rappresentino una sconfitta subita da parte di Israele, in Medio Oriente, la terra di Gilgamesh e altre leggende, la verità si trasforma facilmente da schiacciante disfatta in vittoria totale. Là, era in giacca e cravatta, a recitare la parte del padre della nazione con il giovane Bashar e suo fratello maggiore, Bassel, il principe ereditario, sulle ginocchia. Bassel, il primogenito e virile playboy, era sempre raffigurato in uniforme militare e occhiali Ray-Ban. Era il successore designato nella Repubblica Ereditaria del clan Assad. Ma il destino, a dispetto dei desideri e della volontà del padre dittatore, lo aveva fatto morire al volante della sua Porsche sulla strada per l’aeroporto, una strada oggi controllata dai jihadisti. Tutti i monumenti e le piazze più importanti erano intitolati al “leader”: la Biblioteca Nazionale Assad, il Ponte Assad, i Giardini Assad, e poi statue di Assad in tutte le piazze e agli incroci principali. Era onnipresente, ci seguiva fin dentro i nostri sogni trasformandoli in incubi. I tanti servizi segreti, il famoso Moukhabrat, monitoravano ogni attività fino al più piccolo gesto. C’erano più servizi segreti che formaggi francesi, e solo il clan nordcoreano dei Kim può competere con gli Assad per durata del regno.

Un quartiere della città siriana di Homs

Sotto la dittatura non c’era alcuna logica. Mentre studiavo per il mio diploma di maturità, un residuo del sistema educativo del Mandato francese, ho dovuto seguire lezioni obbligatorie di addestramento militare. Ogni giorno, a scuola, indossavamo la divisa militare obbligatoria con berretto e stivali. Ci insegnava teoria militare un istruttore militare che era il vero capo del liceo. Fummo anche portati in gita scolastica fino al confine con Israele, a Quneitra, per esercitazioni di tiro. Nel cortile della scuola, sotto lo sguardo terrificante dell’istruttore con il suo cronometro, ogni studente doveva smontare e rimontare un Kalashnikov. Oggi, 32 anni dopo, qui nel mio quartiere parigino, tutto questo mi appare assurdo e kafkiano: una scuola superiore che funzionava come una caserma militare; studenti arruolati nella “Gioventù Rivoluzionaria” del partito Ba’ath che, dopo un corso estivo di paracadutismo, tornavano con le pistole alla cintura, terrorizzando gli altri studenti, e premiati con 20 punti bonus per aumentare il loro voto di maturità.

In teoria anche gli studenti palestinesi potevano beneficiare di questo favoritismo. Tuttavia, anche se ottenevano il bonus, il governo li teneva fuori dell’università. Per decenni i palestinesi sono stati tenuti nella miseria, relegati nel campo profughi di Yarmouk alla periferia di Damasco. Continuavano ad arruolarsi nelle varie fazioni alleate alla Siria in Libano, spesso facendosi la guerra tra loro, ogni tanto facendola contro Israele, sempre adoperandosi al meglio per accaparrarsi i petrodollari distribuiti dagli stati del Golfo. La Siria non aveva molto petrolio, ma traeva profitto col terrorismo a noleggio esportato nei paesi vicini. I ricchi stati del Golfo saldavano i conti del paese “fratello” pagandolo perché difendesse l’”onore arabo” contro Israele. Oggi è l’Iran che ha assunto questo ruolo e finanzia il regime. Mentre, ironia della sorte, oggi gli ex fratelli del Golfo finanziano e armano coi loro petrodollari le fazioni islamiste.

Khan Sheikhun, provincia di Idlib, aprile 2017

Nella Siria della mia infanzia molti mondi e antiche civiltà vivevano affiancati, così come svariate religioni e gruppi etnici. Io ero il curdo, nella mia cellula comunista, insieme con il druso e il cristiano. L’ebreo, costretto a lasciare il paese dopo la creazione dello stato di Israele e l’ascesa del nazionalismo aggressivo pan-arabo, non aveva più posto. Il nostro movimento si opponeva al regime ed era anche dissidente rispetto al comunismo ufficiale legato a Mosca. Questa doppia contestazione mi offriva le condizioni ideali per esprimere la mia rabbia e la rivolta di un giovane appartenete a una minoranza. Tutto questo, prima della delusione e del lungo periodo di solitudine che ne seguì.

In un paese arabo prevalentemente sunnita, l’unica opzione politica a disposizione delle minoranze per difendersi era dietro le barricate della sinistra. Il grande storico Eric Hobsbawm ha affermato che gli ebrei di minoranza tendevano “naturalmente” a sinistra nel contesto della seconda guerra mondiale e dell’ascesa del nazismo. I fondatori del Partito Ba’ath negli anni ‘40 si ispiravano proprio all’ideologia nazista. Influenzati dal filosofo tedesco Fichte, erano grandi ammiratori del nazismo. Per “risolvere” il problema curdo in Siria, il capo dei servizi segreti nella regione curda propose una “soluzione finale” in attuazione di un suo “saggio” che era una copia diretta del Mein Kampf.

Come a Gerusalemme e Istanbul, a Damasco i quartieri cristiano, ebraico, musulmano, armeno, curdo e circasso vivevano fianco a fianco, condividendo le stesse ansie e paure, lo stesso linguaggio del corpo: era ciò che ci teneva legati ed era la base della nostra “sirianità”. Quella volta che l’elettricità venne tagliata nel nostro quartiere, capimmo tutti il motivo: il fratello del presidente era venuto a “far visita” alla sua presentatrice televisiva preferita. Sapevamo che Rafaat al-Assad, zio dell’attuale Bashar, aveva bisogno di rilassarsi dopo una recente carneficina. Brandiva il “bastone del comando” alla testa della onnipotente Brigata della Difesa, terrorizzando l’intero paese. E’ lui che saccheggiò e rase al suolo interi quartieri di Hama e Aleppo fra il 1979 e il 1982.

L’abbandonato quartiere ebraico di Damasco

Il partito Ba’ath prese il potere nel 1963 e da allora il partito unico ha dominato la Siria. Nel 1984, l’anno in cui ho preso il diploma di maturità, Hafez Al-Assad si ammalò gravemente e il regime con lui. Fuori di sé, intensificò la repressione. Ondate di arresti si succedettero a un ritmo infernale, l’intero paese era gestito come un’unica prigione. A Damasco circolavano voci di prigionieri politici ammucchiati mezzi vivi, uno sopra l’altro, nei sotterranei di carceri come “Mezzeh” “Palestina” e “Bab Touma”, per citarne solo alcuni. Più di un migliaio di prigionieri politici erano già stati massacrati a Palmyra, abbastanza per alimentare le voci e mandare la popolazione in paranoia. Il panico penetrò anche nel cerchio più interno della famiglia: il famigerato fratello del presidente fu mandato in esilio, accusato di fomentare un colpo di stato. Se ne andò con le tasche piene di miliardi di dollari. Ancora oggi, mentre continua a ordire colpi di stato contro il nipote, che è l’attuale presidente, trasmettendo dalla sua stazione televisiva con sede a Londra, Rafaat al-Assad ha stabilito il suo esilio dorato a Parigi e si gode le spiagge di Marbella.

Quando a mia volta presi la via dell’esilio, in quello stesso anno, per sfuggire alla certezza di una breve vita in qualche prigione, non potevo immaginare che qualche decennio più tardi milioni di siriani si sarebbero incamminati su quella stessa strada. Ma sapevo molto bene che nel mondo musulmano, l’islam aveva bisogno di essere riformato. Le religioni sue sorelle maggiori si erano evolute attraverso secoli di riforme, acquistando in saggezza e maturità grazie all’Illuminismo. Unica alternativa: gli stessi modelli autoritari e dittatoriali avrebbero continuato a riprodursi e il dispotismo orientale avrebbe continuato a imperversare. Solo ora il mondo islamico ha iniziato il suo viaggio travagliato e violento verso la modernità. I due rami dell’islam continuano a scatenare guerre, accompagnate da massacri che ricordano le stragi cattolico-protestanti della notte di San Bartolomeo.

Non è solo per dovere morale, ma perché viviamo in un mondo globale e interconnesso, che l’Occidente deve venire in aiuto del Medio Oriente. E’ nel proprio interesse che deve farlo.

(Da: Ha’aretz, 5.4.17)