Israele – 60 anni: La Legge del Ritorno

Discussa e controversa, ma rimane la profonda ragion d’essere dello stato ebraico

M. Paganoni per NES n. 1, anno 20 - gennaio 2008

image_1968“Ogni ebreo ha diritto di stabilirsi in Israele come immigrato”. Più chiaro e semplice di così, l’articolo 1 della Legge del Ritorno non potrebbe essere. Eppure si tratta di una delle leggi più discusse e controverse dello Stato d’Israele.
Approvata nel 1950, integrata nel 1954 e di nuovo nel 1970 con una clausola non irrilevante (“questo diritto riguarda anche il figlio e il nipote di un ebreo, il coniuge di un ebreo, il coniuge di un figlio o di un nipote di un ebreo”), la Legge del Ritorno costituisce, per dirla con Suzie Navot (Il sistema costituzionale dello Stato di Israele, 2006), “l’espressione più concreta della definizione dello Stato in quanto Stato ebraico, e dà veste giuridica all’idea centrale del sionismo”. Insomma, è la ragion d’essere d’Israele.
Ma non si tratta solo di ideologia. Al momento dell’approvazione, la Legge del Ritorno rispose anche ad esigenze molto pratiche: all’indomani della Shoà e nel pieno dell’ostilità araba, Israele con questa legge realizzava lo “Stato rifugio” per ogni ebreo, sopravvissuto o in pericolo. Il che comunque non le ha risparmiato aspre critiche, dentro e fuori Israele.
Primo capo d’accusa è che una legge che dia esplicita priorità a un gruppo etnico o religioso non sarebbe compatibile coi principi liberal-democratici. Ma la Legge del Ritorno, replicano i suoi difensori, non riguarda coloro che sono già cittadini israeliani (ebrei o non ebrei), bensì solo coloro che desiderano diventarlo. Né impedisce a qualunque non ebreo di diventare cittadino, in base ai processi di naturalizzazione previsti dalle leggi del 1952 “sull’ingresso in Israele” e “sulla cittadinanza”, del tutto simili a quelle in vigore in altri paesi democratici. “Inoltre – spiega ancora Navot – la concessione del diritto di cittadinanza e di residenza non è sottoposta al principio di eguaglianza, per il semplice motivo che in questo campo è riconosciuto allo Stato il diritto di regolare la composizione della propria popolazione”, diritto espressamente sancito dalla Convenzione Internazionale contro la discriminazione razziale approvata dall’Onu nel 1966. In altri termini, nessuno Stato è tenuto ad accogliere come cittadino qualunque persona lo voglia. Riconoscere un “diritto al ritorno” in Israele a immigrati non ebrei, e senza parenti ebrei, sarebbe in contraddizione con l’esplicito proposito di creare uno “Stato per il popolo ebraico” sancito dalla Società delle Nazioni nel 1922 e dalle Nazioni Unite nel 1947.
Infine, viene sottolineata la necessità storica di garantire la sopravvivenza del popolo ebraico, in un mondo che ha conosciuto forme durature e micidiali di antisemitismo. Anche qui viene richiamata la Convenzione Onu del ’66 che permette forme di trattamento preferenziale a favore di gruppi storicamente oggetto di discriminazione o persecuzione.
Diversa e quasi opposta la critica mossa, soprattutto negli ultimi quindici anni, contro un’applicazione della Legge del Ritorno considerata troppo estensiva. Grazie all’emendamento del ’70, essa ha aperto le porte d’Israele a una quantità di immigrati non ebrei, specie dall’ex Unione Sovietica, con tutte le immaginabili conseguenze sul piano sociale, economico ed anche dell’identità nazionale. Questione che è strettamente legata all’altro nodo controverso della legge, riassumibile nell’eterna domanda: “chi è ebreo?”.
Emendamenti e giurisprudenza hanno esteso l’applicabilità della Legge del Ritorno sino a coprire praticamente qualunque individuo che verrebbe perseguitato come “ebreo” dall’antisemitismo di tipo nazista. Come potrebbe essere altrimenti, notano i difensori della legge, se Israele vuole essere davvero il rifugio che allora mancò tragicamente? Come si potrebbe sopportare l’esistenza (in teoria, ma non solo: si pensi al caso dei Falash Mura etiopi) di una persona in pericolo perché ebrea, ma non accolta in Israele in quanto non ebrea?
La questione è ulteriormente complicata dal fatto che il rabbinato israeliano ortodosso si attiene alla ben più restrittiva definizione halachica di ebreo. Nel 2002 la Corte Suprema ha stabilito per la prima volta che l’anagrafe israeliana registri come ebrei anche i convertiti Conservative o Reform: una sentenza che non concerne direttamente la Legge del Ritorno, ma la cui motivazione (“Israele non è il paese di una comunità ebraica, ma del popolo ebraico, che comprende diverse denominazioni, attive sia dentro che fuori Israele”) sembra confermare quell’impegno a “spalancare le porte della patria a ogni ebreo”, senza eccezioni, evocato sessant’anni fa dalla Dichiarazione d’Indipendenza.

Nella foto in alto: 1952, profughi ebrei dal nord Africa in un campo di raccolta provvisorio in Israele (ma’abarah)

Testo della Legge Ritorno (in inglese):

http://www.mfa.gov.il/MFA/MFAArchive/1950_1959/Law%20of%20Return%205710-1950