Israele – 60 anni: L’amaro destino dei confini d’Israele

Sicuri e riconosciuti: così dovrebbero essere i confini del paese secondo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu

M. Paganoni per NES n. 2, anno 20 - febbraio 2008

image_2005Sicuri e riconosciuti. Così dovrebbero essere i confini del paese nelle aspirazioni degli israeliani. Non lo dicono loro: lo dice la risoluzione 242 approvata dal Consiglio di Sicurezza dopo la guerra del ’67. L’Onu, infatti, al contrario di quanto comunemente si crede, non diceva dove avrebbero dovuto essere i confini fra Israele e i suoi vicini, bensì come dovevano essere. Fino ad allora, infatti, quei confini non erano mai stati riconosciuti dai paesi vicini. Ed erano anche ben poco difendibili. Le linee d’armistizio (espressamente provvisorie) in vigore dal ‘49 al ’67 erano lunghe, frastagliate e irrazionali. Attraversavano città e villaggi e dividevano il paese tra nord e sud, spingendosi fino a 15 km dal mare: quasi tutto Israele era confine. Furono quelle le linee che alimentarono l’illusione araba di poter sbaragliare Israele, e che costrinsero Israele a difendersi attaccando.
Dopo il ’67 le linee di cessate il fuoco, sebbene ancora non riconosciute, sembrarono perlomeno più sicure. La profondità strategica del Sinai (che resse l’urto dello Yom Kippur ’73), la posizione dominante del Golan (che da allora in poi ha consigliato ai siriani grande prudenza), la “frontiera tattica” sulla valle del Giordano (abitata quasi solo da israeliani), la capitale riunificata e lontana dai confini: tutto questo sembrava garantire perlomeno una “guerra fredda”, se non una pace calda. Vent’anni dopo, la prima sanguinosa intifada si sarebbe incaricata di dimostrare che la “profondità strategica” non era gratis e poteva comportare costi umani, militari ed economici molto onerosi.
Nel frattempo si affermava l’idea che la pace vera si sarebbe raggiunta solo “in cambio di terra”. Un concetto che venne adottato con successo nel caso dell’Egitto e poi anche, ma con ben più magri risultati, nel negoziato coi siriani e nel processo di pace coi palestinesi.
Oggi Israele è demarcato da linee di natura assai varia. A sud-ovest, il confine stabilito dal trattato di pace del 1979 che separa Israele dal Sinai egiziano. A est, il lungo confine con la Giordania stabilito dal trattato di pace del 1994. A nord-est, la provvisoria linea di disimpegno fra Golan e Siria fissata con gli accordi di Kissinger del 1974. A nord, la linea internazionalmente riconosciuta fra Israele e Libano su cui le forze israeliane si sono attestate nel maggio 2000, ma che a Beirut ufficialmente non basta per firmare la pace.
La demarcazione fra Israele e palestinesi, per ora, rimane formalmente quella stabilita dall’accordo ad interim del 1995 e dai successivi accordi applicativi, in attesa del negoziato finale: il quale però, fallito a Camp David nel luglio 2000, in teoria dovrebbe riprendere ora per concludersi addirittura entro il 2008. L’accordo del ‘95 disegnava a macchie di leopardo le zone di esclusiva giurisdizione palestinese (Aree A), inframmezzate da zone co-gestite (Aree B) e zone ancora sotto controllo israeliano (Aree C): una complessa architettura che l’intifada degli attentati suicidi scoppiata nel 2000 ha fatto saltare, e che oggi si cerca faticosamente di ripristinare almeno in Cisgiordania. Sul versante della striscia di Gaza, invece, dall’estate 2005 Israele ha modificato unilateralmente le cose ritirandosi sulla linea pre-’67.
Ma attenzione: mentre in Cisgiordania nessuna Area A palestinese confina con un paese arabo circostante, viceversa la striscia di Gaza confina a sud con l’Egitto per una cruciale dozzina di km. Al momento del ritiro, su pressione americana Gerusalemme accettò di cedere anche il “corridoio Philadelphia” che controlla quel confine: ci avrebbero pensato gli egiziani e un corpo di osservatori europei a garantire che non venisse utilizzato per traffici impropri. Non è andata così: prima il sistema dei tunnel sotterranei, moltiplicati soprattutto dopo il colpo di mano con cui Hamas ha preso il potere a Gaza nel giugno 2007; poi, nel gennaio 2008, lo sfondamento della barriera di confine. Il risultato è l’ennesimo paradosso mediorientale: a causa del massiccio transito di armi e terroristi fra il “Hamastan” di Gaza e il Sinai egiziano, il primo confine “sicuro e riconosciuto” d’Israele, quello trentennale con l’Egitto, è tornato improvvisamente pericoloso, tanto che si parla di erigere su tutti i suoi 220 km una barriera difensiva, come sempre estremamente onerosa in termini di costi, disagi, impatto ambientale.
Come per un amaro destino, l’aggressività dell’irredentismo arabo, che puntualmente risorge da ogni lato, sembra condannare Israele a rinchiudersi entro una cerchia di mura medievali molto lontane da quella “mano di pace e di buon vicinato tesa a tutti gli stati e popoli vicini” dalla dichiarazione d’indipendenza di sessant’anni fa.