Israele al voto: l’esito delle elezioni non sarà la fine del mondo

Israele può sopravvivere un anno o due con un ministro Ben-Gvir o appeso al sostegno di Odeh, perché una maggioranza risicata in mano agli estremisti non durerebbe comunque più di tanto

Di Herb Keinon

Herb Keinon, autore di questo articolo

È ora che tutti facciano un bel respiro profondo e si diano una calmata. Come facciamo a sapere che è ora? Lo sappiamo perché Ram Ben Barak, di Yesh Atid, parlando delle imminenti elezioni ha sottolineato che i nazisti salirono al potere con mezzi democratici e la prima cosa che fecero fu abolire la Corte Suprema tedesca (cosa storicamente inesatta, tra l’altro). Lo sappiamo perché la leader laburista Merav Michaeli ha affermato che Yitzhak Rabin “è stato ucciso in un assassinio politico perpetrato con la collaborazione di Benjamin Netanyahu”. Lo sappiamo perché Netanyahu ha detto che se il suo blocco perde “sarà in pericolo il mondo della Torà”. Lo sappiamo perché il parlamentare del Likud David Amsalem ha dichiarato che se sarà Yair Lapid a formare la coalizione di governo, ci si muoverà  verso il divieto della circoncisione. E lo sappiamo perché Ben Barak – sì, lo stesso Ben Barak di cui sopra – ha detto che se Bezalel Smotrich diventerà ministro nel prossimo governo, le conduttrici televisive saranno costrette a coprirsi i capelli.

Gente, torniamo coi piedi per terra. Non è che tutto ciò che non piace, anche se non piace proprio per niente, è nazismo, teocrazia in stile iraniano, empietà sacrilega o svuotamento di Israele di ogni sostanza ebraica. Israele è da tempo alle prese con la propria identità. Che cos’è, uno stato ebraico e democratico o uno stato democratico ed ebraico? E’ innanzitutto ebraico o innanzitutto democratico? Eppure, quando si ascolta la retorica surriscaldata, iperbolica ed esagerata di una campagna elettorale come questa, se ne ricava l’impressione che se vince “l’altra parte” Israele cesserà di botto di essere democratico o di essere ebraico.

1 novembre 2022: un elettore al voto in un seggio di Tel Aviv

Le cose non stanno esattamente così. Gli scenari da giorno del giudizio sul dopo-elezioni se vince “l’altra parte” scartano totalmente l’idea che vi sia qualche brava persona anche a Sodoma. Può darsi che a Sodoma non vi fosse in effetti nessuna brava persona, ma Israele non è Sodoma: né l’Israele di Netanyahu né l’Israele di Lapid.

Quelli che temono che un governo Netanyahu comprendente anche Smotrich e Itamar Ben-Gvir come ministri di rilievo stravolgerebbe tutte le tradizioni democratiche sancite in questo paese negli ultimi 75 anni con sudore, lacrime e sangue negano di fatto la possibilità che in una coalizione di 61 seggi a guida Likud vi possono essere una o due voci che si opporrebbero. Domanda: non ci sarebbero nemmeno una o due persone di coscienza tra i 61 parlamentari disposte a far cadere il governo se cercasse davvero di spingersi troppo oltre? Neanche una? Non c’è un solo parlamentare rispettabile in nessuno dei partiti che compongono il blocco pro-Netanyahu – Likud, Sionisti Religiosi, Shas, Ebraismo Unito della Torà – che protesterebbe e ostacolerebbe lo scempio di tutti i principi e costumi democratici del paese? Né Yuli Edelstein, né Avi Dichter, né Yoav Gallant, né Danny Danon, né Nir Barkat, né Yoav Kisch, né Amichai Chikli? Proprio nessuno? Nessuna di queste persone si leverebbe per impedire a Israele di trasformarsi nella caricatura fascista che evocano gli oppositori di Netanyahu? La nazione non protesterebbe in massa, i mass-media non alzerebbero la voce giorno e notte, la magistratura non si metterebbe di traverso se, ad esempio, qualcuno pensasse davvero di “deportare” gli arabi o di snaturare completamente i tribunali? No. Il sistema di controlli e di pesi e contrappesi di questo paese si è tutt’a un tratto volatilizzato. Chiunque conosca Israele sa che questo paese – intendendo le persone che compongono questo paese – non starebbe a guardare e non permetterebbe di scivolare lungo una china fascistoide.

1 novembre 2022: elezioni nel villaggio arabo Maghar, nel nord di Israele

Lo stesso vale per l’altra parte. Mettiamo che tocchi a Lapid formare un governo, foss’anche un governo sostenuto dal partito (arabo) anti-sionista Hadash-Ta’al. Ciò significherebbe davvero che il paese verrà spogliato di ogni suo carattere ebraico e che ci si precipiterà a “fondare uno stato terrorista nel cuore stesso della patria degli ebrei”? Nessuno protesterebbe contro una decisione come quella ridicolmente paventata da Amsalem di vietare le circoncisioni nello stato ebraico? Suvvia, non c’è nessuno in Yesh Atid, nel partito di Unità Nazionale, nel partito Laburista o nel Meretz che ha abbastanza a cuore la natura ebraica dello stato da opporsi e far cadere un governo a maggioranza risicata che tentasse di perseguire un’agenda così estremista volta a cancellare ogni connotazione ebraica di Israele? Sono tutti odiatori viscerali della tradizione ebraica e della Torà?

Nel corso degli anni Netanyahu ha seminato divisioni fra le “tribù” del paese e ha delegittimato a parole il campo politico avversario. Ma non ha inventato lui questa pratica e non ne detiene il monopolio. Dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995, ci fu un ampio tentativo di infangare e delegittimare l’intero campo religioso-sionista e tutto il movimento degli insediamenti e chiunque fosse vivacemente contrario agli accordi di Oslo, come se fossero tutti in qualche modo responsabili di quell’assassinio. Anche Lapid si è unito a questa cacofonia definendo i suoi rivali politici “forze dell’oscurità”. E’ saggio, se sei interessato al bene del paese, definire “forze dell’oscurità” la metà del paese che non ti sostiene?

Queste elezioni sono importanti? Certamente, così come lo sono state tutte le 24 elezioni precedenti. Sono elezioni fatali? Tutte al momento sembrano fatali. Significa che sono in gioco il cuore stesso, l’anima e il futuro dello stato ebraico? No. Comunque vada, sia che torni Netanyahu e porti con sé Ben-Gvir e Smotrich, sia che Lapid metta insieme una coalizione basata su Ayman Odeh e Aida Touma-Sliman (quella che ha definito “martiri” i terroristi della “Fossa dei leoni” di Nablus), Israele sopravviverà.

1 novembre 2022: detenuti al voto in un penitenziario israeliano

Israele sopravviverà, anche se molto probabilmente non lo farà una coalizione risicata di 61 o 62 seggi. Basta guardare cosa è successo all’attuale “governo del cambiamento”. Una coalizione di governo di 61 parlamentari non può durare. Ci saranno sempre uno o due parlamentari, delusi o scontenti o non disposti ad andare contro la propria coscienza, che lo faranno cadere. Per sopravvivere e durare più di un anno, qualsiasi governo ristretto che emergesse dal voto del primo novembre dovrà allargarsi, cooptare altre formazioni o parlamentari transfughi da altri partiti, che di conseguenza eserciterebbero un’influenza di riequilibrio rispetto alle voci più estreme. E ci sono voci estreme, sia a destra che a sinistra: nessuno lo nega. Ma un governo ristretto di soli 61 seggi che si basasse esclusivamente su quelle voci non durerebbe abbastanza a lungo per iniziare a compiere nessuno dei passi previsti da coloro che paventano l’apocalisse.

Israele può sopravvivere un anno o due con un governo in cui un ministro Ben-Gvir o il parlamentare Odeh hanno in pugno i destini della coalizione. Certo, non sarebbe l’anno migliore della sua storia. Un governo che dipendesse da Odeh sarebbe l’equivalente di un chiodo che graffia la lavagna per la maggioranza sionista di questo paese, che ha pagato un prezzo così alto di sangue e risorse per farlo esistere, crescere e prosperare. Mentre un ministro Ben-Gvir creerebbe innumerevoli problemi con gli amici di Israele all’estero e regalerebbe munizioni a non finire ai suoi nemici, per non parlare della natura francamente nociva di alcune delle politiche che vorrebbe promuove. No, decisamente non sarebbe il migliore dei mondi possibili. Ma non sarebbe nemmeno la fine del mondo. Non siamo all’ascesa di Hitler al potere, né alla profanazione degli idoli del Tempio. E passerebbe. Probabilmente passerebbe anche abbastanza in fretta, visto il ritmo attuale delle elezioni in Israele. Quindi è tempo che tutti facciamo un bel respiro profondo.

(Da: Jerusalem Post, 30.10.22)