Israele: prima della Shoà, oltre la Shoà

Una voce fuori dal coro, in un paese democratico che non teme il dibattito anche sui temi più delicati

Di Yoaz Hendel

Yoaz Hendel, autore di questo articolo

Prima della Shoà ci fu il sionismo: prima che la mia famiglia venisse a stare qui, nella Palestina turca e poi britannica venivano a vivere solo gruppi di giovani ebrei un po’ folli e molto idealisti, gente animata da speranze e utopie fatte di socialismo ed egualitarismo, riscatto con il lavoro della terra, costruzione di una società esemplare. Non erano molti gli ebrei che avevano maturato una prospettiva nazionale, prima della Shoà. Gli ebrei in Occidente avevano sviluppato una mentalità più conformista. Divenuti liberi cittadini, perseguivano l’idea di integrarsi nelle rispettive società: ebrei dentro casa, ma all’esterno omologati alla società non ebraica. I più religiosi perseguivano la convinzione che carità e preghiera potessero far sparire il male, i tiranni, i pericoli. Il sionismo era in minoranza, i sionisti non erano tantissimi. Ma sia il sionismo che i sionisti erano comparsi ben prima della Shoà, quando agli occhi della maggior parte degli ebrei antisemitismo e pogrom parevano ancora sopportabili, anche se incomprensibili, nella convinzione che si trattasse di fenomeni in via di estinzione.

Successivamente venne creato lo Stato ebraico. Le Nazioni Unite presero la loro decisione sotto lo spettro della Shoà, le masse di ebrei arrivarono sotto lo spettro della Shoà e la guerra di sopravvivenza contro l’attacco degli arabi venne combattuta sotto lo spettro della storia in generale e della Shoà come suo culmine.

Ottobre 2016: il presidente italiano Sergio Mattarella in visita a Yad Vashem, il museo-memoriale della Shoà a Gerusalemme

All’inizio, i nuovi israeliani misero da parte la Shoà. Il sabra (l’ebreo nato in Terra d’Israele) costruì case e città dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Gli orrori della Shoà erano accantonati, la storia della Diaspora passava in secondo piano e Israele si ricollegava direttamente ai giorni dei Maccabei, di Masada e di Bar Kokhba, all’eroismo nazionale ebraico. I sopravvissuti erano quasi imbarazzanti. La Shoà veniva riservata ai giustizieri che davano la caccia ai nazisti, agli agenti del Mossad che catturavano Eichmann, alle persone che arrivavano da “laggiù” senza mai dire cosa fosse quel “laggiù”.

Poi, quasi all’improvviso, la Shoà deflagrò e apparve ovunque: nei libri, nei film, nelle ricerche, nelle attività didattiche, negli incubi dei bambini. La Shoà apparve in filigrana dietro l’Iran nei discorsi del primo ministro, anche se oggi c’è Israele che è uno stato forte e sovrano. Il nazismo apparve in filigrana nei terroristi palestinesi, anche se oggi siamo un paese con un esercito forte e, per nostra fortuna, loro sono arabi animati da un odio profondo, ma capacità limitate. La Shoà apparve in filigrana dietro a qualunque sfigato occidentale che metteva una pagina su Facebook per invocare il boicottaggio di Israele. Ogni provocatore che usava la parola nazismo per descrivere governo e stato d’Israele poteva fregarsi le mani compiaciuto nel vedere le sorprendenti reazioni che suscitava immediatamente. Comparivano nazisti ovunque, ad ogni angolo del Paese. Chi lo sa, può darsi che sia parte di un fenomeno psicologico inevitabile in un paese di seconda generazione che beve fino in fondo l’amaro calice e deve confrontarsi di default con un dramma nazionale.

Negli anni ’30, per stabilirsi in terreni regolarmente acquistati gli ebrei dovettero imparare ad erigere in un solo giorno una postazione “torre e palizzata” perché sapevano che quella stessa notte sarebbero stati attaccati da bande di arabi armati. Nella foto: ricostruzione del sistema “torre e palizzata” del kibbutz Negba

A settant’anni di distanza, dobbiamo elaborare la Shoà. Questo è quello che mi passa per la mente quando arrivo in auto a Gerusalemme attraverso Ein Kerem, sulla strada che sale a curve su per le alture più elevate d’Israele. Il Monte Herzl, così chiamato dal nome del profeta del sionismo pre-Shoà, l’uomo della diplomazia e dei sogni: la montagna dove si trovano il memoriale della Shoà e il cimitero dei grandi leader del Paese. La Diaspora da una parte, lo stato nazionale dall’altra. Israele ha fatto di Yad Vashem la tappa obbligata di ogni ospite straniero in visita ufficiale, il luogo che ci spiega, il luogo che ci tiene legati insieme. Ed è stato un grande errore. La Shoà fa parte della nostra storia, ma non è l’inizio della nostra storia e non la racchiude.

Un paese che guarda al futuro e vuole un luogo-simbolo che sia tappa obbligata per ogni ministro straniero in visita dovrebbe cambiare il percorso della propria memoria. Il retaggio di Israele è nella Città di David. Un sito imprescindibile per un leader straniero potrebbe essere individuato nel museo della storia del sionismo ancora da creare a Degania [il primo kibbutz], a Bar Giora [moshav di ebrei yemeniti] o a Kfar Etzion [130 uomini e donne morti nella difesa dell’entrata sud di Gerusalemme] e nelle storie del convoglio dei 35 combattenti dell’Hagannà [massacrati mentre tentavano di raggiungere Kfar Etzion], delle comunità Homa U’Migdal (“torre e palizzata”) e della strada di Burma [per rompere l’assedio della Gerusalemme ebraica].

Lo stato di Israele, noto come la nazione delle arance prima di diventare la nazione dell’high-tech, e le decine di migliaia di ettari di frutteti piantati nel paese in un solo decennio di sionismo, che divennero il mezzo di sussistenza dei pionieri ebrei e degli arabi che vivevano qui, prima che diventassero “palestinesi”. E l’Istituto Weizmann e l’Università di Gerusalemme. E lo sviluppo tecnologico.

Il riscatto con il lavoro della terra e la tecnologia. Nella foto: le vigne di Carmey Avdat, nel deserto del Negev

La Shoà non è che un enorme spettro.

Quando sarà fatto questo passaggio e avremo elaborato la Shoà, finalmente potremo trattare la sovranità ebraica come un dato di fatto, e rimuovere la Diaspora dagli ebrei anni dopo che gli ebrei si sono tolti dalla Diaspora. E definire lo stato nazionale del popolo ebraico attraverso quello che abbiamo fatto, e non quello che ci è stato fatto.

Una delle esperienze più forti nella mia vita è stata visitare i campi di sterminio in Polonia mentre ero in uniforme, nel quadro di un corso per ufficiali riservisti delle Forze di Difesa israeliane al tempo della guerra in Libano del 2006. Un’esperienza che ti prende allo stomaco. Il confronto tra la vita della mia famiglia d’origine e la mia famiglia di oggi in Israele crea solide fondamenta di fede nel sionismo. Ogni israeliano dovrebbe visitare quei luoghi per poter apprezzare fino in fondo ciò che abbiamo costruito qui. Visitarli, vedere, toccare con mano, piangere. E poi tornare. Tornare in Israele, anziché continuare a vivere qui attraverso ciò che è accaduto laggiù.

(Da: YnetNews, 23.4.17)