L’11 settembre egiziano

L’ISIS nel Sinai è vivo e vegeto, ma la strage nella moschea al-Rawdah potrebbe segnare l’inizio della fine

Di Adam Hoffman, Oded Granot

Scrive Adam Hoffman: L’attentato contro i fedeli della moschea al-Rawdah nella città di Bir al-Abed, nel Sinai settentrionale, perpetrato durante le preghiere del venerdì, ha causato la morte di 305 persone e ne ha ferite almeno altre 128. Le crude immagini di morti e feriti hanno invaso i social network arabi sin dai primi minuti dopo la strage. Rappresentanti egiziani l’hanno parlato dell’attacco terroristico più letale nella moderna storia del paese, e alcuni commentatori l’hanno già definito “l’11 settembre dell’Egitto”.

L’Egitto, e in particolare la penisola del Sinai, ha già subito in passato numerosi attentati terroristici ad opera di gruppi jihadisti, principalmente contro le forze di sicurezza e le chiese copte, ma questo attacco è diverso: per la prima volta i jihadisti hanno deliberatamente preso di mira fedeli musulmani in preghiera dentro una moschea uccidendo uomini, donne e bambini e aprendo il fuoco dall’esterno su coloro che cercavano di fuggire alla carneficina e sui soccorritori.

Sebbene finora non siano pervenute rivendicazioni esplicite, le autorità egiziane non hanno dubbi sulla matrice ISIS dell’attentato. L’ISIS è attivo nella penisola del Sinai dal 2014, quando il locale gruppo salafita-jihadista Ansar Bayt al-Maqdis ha giurato fedeltà all’ISIS trasformandosi nella Wilayat Sinai (Provincia del Sinai) dello Stato Islamico. Wilayat Sinai non è l’unico gruppo jihadista attivo nel Sinai (a metà novembre un vecchio gruppo pro al-Qaeda chiamato Jund al-Islam ha annunciato la sua ricomparsa nella regione minacciando di “sradicare” l’ISIS dalla Penisola), tuttavia è l’ISIS che ha le capacità e la motivazione sufficienti per effettuare un attacco così sanguinario.

Ma perché l’ISIS avrebbe dovuto sferrare un attacco così orribile e contro quell’obiettivo in particolare? I motivi sono sia strategici che ideologici. Sul piano strategico, l’ISIS ha recentemente perso tutto il territorio che prima controllava in Iraq. Il 21 novembre il primo ministro iracheno Haider al-Abadi ha annunciato ufficialmente la liberazione del paese dal controllo dell’ISIS. Ma l’ISIS si ispira all’idea di un califfato “rimanente” (baqiyya) che combatte tutti i “nemici di Dio”. Pertanto la perdita di territorio nel cuore del suo progetto di stato non fa che motivare l’ISIS a colpire i suoi nemici al di fuori dell’Iraq e della Siria. Come ha scritto il giornalista Graeme Wood, “le stragi di massa sono il modo con cui l’ISIS cerca di rimanere rilevante”. Tali attacchi dimostrano che il gruppo è ancora molto vivo e forte, nonostante le perdite territoriali in Iraq e in Siria e la dura campagna anti-terrorismo condotta dal regime di al-Sissi.

Oltre a questa logica strategica, l’ISIS ha deliberatamente preso di mira una moschea conosciuta per la sua popolarità tra i fedeli sufi. Benché il sufismo, una forma mistica dell’islam, sia parte dell’islam ortodosso da secoli e sia ampiamente diffuso in molte parti del mondo musulmano, i salafiti-jihadisti lo considerano un’eresia e accusano i sufi di politeismo e di innovazione: due peccati imperdonabili agli occhi di un salafita-jihadista. L’ISIS, che ha una consolidata tradizione di attacchi contro santuari sufi in Pakistan, Iraq e Siria, aveva chiarito che considera anche i sufismo in Egitto un bersaglio obbligato: in un’intervista del gennaio scorso su Rumiyah, la rivista in inglese dell’ISIS, il comandante della forza Hisbah (polizia religiosa) di Wilayat Sinai aveva affermato: “Il nostro obiettivo principale è condurre una guerra contro le manifestazioni di shirk (politeismo) e bid’ah (innovazione), come: sufismo, stregoneria, divinazione e adorazione dei santi”. L’intervista aveva persino promesso di “sradicare” specificatamente la moschea di al-Rawdah, quella dell’attacco di venerdì scorso. Nel quadro di questa campagna anti-sufismo, l’ISIS aveva decapitato un anno fa Sulayman Abu Hiraz, un noto sceicco sufi quasi centenario accusato di “divinazione”. Dunque, sebbene nel Sinai il deliberato attacco contro non combattenti in una moschea sia un fatto nuovo, esso è coerente con la politica dell’ISIS volta a sradicare il sufismo e ad attaccare i suoi seguaci e i suoi luoghi di culto.

I colori della bandiera egiziana proiettati venerdì sera sulla facciata del Municipio di Tel Aviv in segno di solidarietà dopo la strage jihadista nella moschea al-Rawdah

Tuttavia, sebbene l’ISIS abbia compiuto l’attacco come una dimostrazione di forza per terrorizzare gli abitanti del Sinai e mettere in imbarazzo il regime di al-Sissi per l’incapacità di sconfiggere l’insurrezione nella penisola, un tale attentato a una moschea e il numero senza precedenti di vittime potrebbero potenzialmente segnare un punto di svolta nella lotta dell’Egitto contro il terrorismo. L’orrenda strage è stata universalmente condannata, non solo dal presidente Trump e dal primo ministro israeliano Netanyahu, ma anche da Ismail Haniyeh, capo del politburo di Hamas, e dall’influente religioso sunnita Yusuf al-Qaradawi. La condanna universale dell’attentato e l’indignazione pubblica contro i responsabili potrebbero mobilitare l’opinione pubblica in Egitto contro i jihadisti e aiutare il regime di al-Sissi a schiacciare Wilayat Sinai e gli elementi che lo sostengono. Benché si faccia un vanto della sua crudeltà, il movimento jihadista è ben consapevole dell’importanza del sostegno pubblico per la sua sopravvivenza a lungo termine e per il suo successo: Ayman al-Zawahiri, vecchio jihadista egiziano e attuale capo di al-Qaeda, ha messo in guardia che “senza sostegno popolare, il movimento islamico dei mujahidin verrebbe schiacciato nell’ombra”. L’orribile attacco di venerdì contro musulmani non combattenti in un sacro luogo di culto potrebbe unificare il pubblico egiziano contro l’ISIS e aiutare i servizi di sicurezza egiziani a schiacciare il ramo locale dell’organizzazione. (Da: Jerusalem Post, 26.11.17)

Oded Granot

Scrive Oded Granot: Il massacro perpetrato venerdì scorso da oltre due dozzine di terroristi verosimilmente dello Stato Islamico (ISIS) non ha precedenti: per lo spaventoso numero di vittime, per la scelta dell’obiettivo, per l’orrenda ferocia delle modalità e per la conferma che i tentacoli dell’organizzazione, sparsi per il Medio Oriente, sono vivi e vegeti, e follemente dediti all’assassinio di massa, anche se il loro cuore in Siria e Iraq ha praticamente smesso di battere. La maggior parte dei fedeli trucidati nella moschea del Sinai erano sufi, seguaci del misticismo islamico sunnita. In linea di principio l’ISIS li considera apostati, ma finora il ramo egiziano dell’organizzazione si era concentrato principalmente su attacchi contro le forze di sicurezza egiziane e contro la minoranza cristiana copta. La scelta di colpire i sufi, e all’interno di una moschea, la casa di preghiera per Allah, stabilisce un precedente che potrebbe indicare un nuovo capitolo negli annali dell’ISIS, all’indomani della caduta del califfato in Siria e in Iraq. In questa fase sembra che i vari rami della dirigenza dello Stato Islamico si siano lanciati in una battaglia per il potere e il controllo. Invece di investire energie nel reclutamento di nuovi adepti, stanno cercando di superarsi a vicenda nel macabro conteggio delle salme, cercando ognuno di dimostrare d’essere più forte, più spietato e più estremista nella fede rispetto agli altri rami. L’ISIS nel Sinai può contare su diversi visibili vantaggi rispetto alle altre branche, in questa feroce competizione: esisteva già prima dell’istituzione dello Stato Islamico, è composto principalmente da giovani locali che si sono radicalizzati e può contare sulle tribù beduine del Sinai tradizionalmente ostili al potere centrale e animate da sentimenti di frustrazione e rancore verso le autorità egiziane. L’esercito egiziano incontra enormi difficoltà nello sradicare il terrorismo dell’ISIS dal Sinai, nonostante la presenza di oltre 40 battaglioni di fanteria e corpi corazzati che sono entrati nella regione con il permesso di Israele (in deroga ai livelli di smilitarizzazione stabiliti con gli accordi di pace fra i due paesi). Le ragioni di questa difficoltà comprendono carenze di intelligence e mancanza di motivazione, ma soprattutto il fatto che l’Egitto non ha unità anti-terrorismo specializzate e avrebbe bisogno di una radicale revisione dei suoi metodi di combattimento. Com’è intuibile, Israele è strettamente interessato a quanto accade nella vicina penisola del Sinai con la quale condivide un confine lungo 266 km. Ed è ovviamente determinato a frustrare i tentativi dell’ISIS di portare il terrorismo a ridosso del suo confine meridionale. Secondo notizie comparse su mass-media stranieri, Israele fornisce assistenza alle forze egiziane attraverso l’intelligence e talvolta anche con mirate operazioni dall’aria. Ma Israele non può fare il lavoro al posto dell’Egitto. E’ chiaro che ora l’Egitto dovrà portare a un nuovo livello il suo impegno contro il terrorismo jihadista nel Sinai. (Da: Israel HaYom, 26.11.17)