La “causa palestinese” non è un contenzioso fra nazioni ma un’affermazione di privilegio e supremazia

Si può affermare e dimostrare che la lunga guerra arabo-palestinese contro l’autodeterminazione ebraica in Medio Oriente è essenzialmente razzista

Di Yochai Guiski

Yochai Guiski, autore di questo articolo

Il 29 novembre, la data della storica decisione delle Nazioni Unite di spartire il Mandato Britannico sulla Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, è stato designato dalle stesse Nazioni Unite come la “Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese”. Tacendo il dettaglio che quella originaria “soluzione a due stati” venne accettata da parte ebraica e respinta dalla parte araba, la “Giornata” del 29 novembre serve ai palestinesi e ai loro sostenitori per rilanciare le calunnie contro Israele, presentato come uno stato coloniale, di apartheid e uno spregiudicato violatore dei diritti umani. A fronte di questa campagna denigratoria, è necessario invece sottolineare una sgradevole verità: la “causa palestinese” non riguarda una questione di giustizia, bensì una pretesa di privilegio e di supremazia da parte di arabi e palestinesi.

So bene che questa affermazione susciterà perplessità in molti lettori, giacché privilegio e supremazia sono solitamente associati a europei e americani “bianchi” e non ai palestinesi, regolarmente descritti come poveri e oppressi. Ma questo significa non vedere un’ovvia realtà di fatto: privilegio e supremazia non sono un’esclusiva dei “bianchi”. Essi scaturiscono da radicate percezioni di superiorità da parte dei più svariati gruppi al potere, specialmente se detengono il potere per molto tempo. Alcune società li manifestano in un sistema di caste, altre lo fanno riducendo ufficialmente le minoranze etniche o religiose a cittadini di seconda classe.

Nel corso dei secoli, gli ebrei sono stati indiscutibilmente cittadini di seconda classe nelle regioni controllate dalle varie espressioni del dominio arabo e islamico, cosa che ebbe termine solo dopo la caduta dell’Impero Ottomano con la prima guerra mondiale. Accadde in tutto il Medio Oriente, inclusa la Terra Santa dove comunità di ebrei vivevano da secoli nelle città considerate sante dalla tradizione ebraica: Gerusalemme, Tiberiade, Hebron, Safed. Gli ebrei dovevano pagare extra tasse in quanto non musulmani. Spesso erano perseguitati (anche se meno che nella “illuminata” Europa) e venivano trattati, disse un ebreo egiziano, come “stranieri a casa propria”. Per la maggior parte di quel periodo, gli ebrei non poterono possedere terreni, vennero costretti a vivere in determinate aree e subirono arbitrari atti di violenza da parte dei loro vicini.

Per 700 anni, sotto controllo musulmano, l’accesso alla Grotta dei Patriarchi di Hebron è stato vietato agli ebrei, che potevano salire solo fino al settimo gradino della scala esterna, come si vede in questo fotogramma tratto da un filmato del 1913. Yochai Guiski: “Secoli di apartheid che gli ebrei hanno dovuto subire sotto il controllo arabo della Terra Santa”

Non c’è da meravigliarsi se, quando gli ebrei di “seconda classe” divennero improvvisamente cittadini con pari diritti sotto il Mandato Britannico, gli arabi provarono sdegno e risentimento per quello che a loro pareva un fatto sacrilego: l’ebreo che godeva degli stessi diritti dell’arabo musulmano. Nessuna terra venne confiscata agli arabi, nessuna casa venne demolita. Vennero regolarmente acquistate (e strapagate) terre per lo più incolte e disabitate, che vennero sviluppate. Ma la rabbia continuò a ribollire. Anche quando gli inglesi ritagliarono un’ampia parte della terra destinata dal Mandato della Società delle Nazioni a diventare “sede nazionale ebraica” e ne fecero l’Emirato hascemita di Transgiordania (oggi Regno di Giordania), gli ebrei continuarono a costruire villaggi e a sviluppare la propria comunità nel restante Mandato, grazie al frutto del loro lavoro e senza privare di nulla la popolazione araba locale. Ma la rabbia araba continuò a montare: era tutto “ingiusto” e “contro natura”, e in effetti i “bravi ragazzi arabi” presero in mano la situazione: case, attività commerciali e villaggi ebraici divennero bersaglio di comportamenti apertamente criminali e di attacchi razzisti, in particolare durante i moti del 1929 e la “Grande Rivolta” contro gli inglesi del 1936-1939 che vide gli arabi attaccare e distruggere comunità ebraiche a Hebron, Gerusalemme, in Galilea e nel Negev, con l’uccisione di oltre 500 ebrei (e un bilancio ancora più pesante di vittime arabe).

Gli apologeti della “causa palestinese” cercano di spiegare tutto questo come una forma “nascente” di nazionalismo e con la rabbia per i cambiamenti demografici. Ma ciò non spiega come mai il fenomeno non fu affatto limitato alla Terra Santa mandataria, verificandosi piuttosto in tutto il Medio Oriente e nel nord Africa. In Iraq, il famigerato pogrom Farhud del 1941 vide gli iracheni assassinare almeno 180 ebrei, ferirne più di 2.000 e saccheggiare case e proprietà di migliaia di persone. In Egitto, si verificarono aggressioni contro gli ebrei al Cairo nel 1938 e nel 1945. Il comportamento razzista si intensificò con un crescendo di violenze contro gli ebrei quando venne dichiarato lo stato d’Israele, massima espressione della raggiunta pari dignità degli ebrei in Medio Oriente: aggressioni e attacchi contro gli ebrei si diffusero a macchia d’olio, le loro proprietà vennero confiscate, molti vennero arrestati o detenuti nei campi. Circa novecentomila ebrei furono costretti a emigrare abbandonando la maggior parte o la totalità dei loro beni: veri e propri cittadini di seconda classe.

Perché possiamo affermare che si tratta di razzismo e privilegio, e non di un mero contenzioso tra nazioni? Per una serie di ragioni.

1. Il fenomeno si è presentato diffuso e costante in tutta l’area del Medio Oriente e nord Africa: non c’è un solo paese arabo o mediorientale che non abbia visto la sua comunità ebraica bistrattata e decurtata.

2. Il rifiuto del diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro antica patria è pervasivo. Non è questa o quella politica ma la nozione stessa di sionismo, il movimento nazionale del popolo ebraico, che viene condannata nei termini più denigratori come colonialismo, razzismo, apartheid, crimine contro l’umanità. Il rigetto del semplice diritto di essere un israeliano o un sionista si manifesta in modo evidente nel mondo accademico, nello sport (comprese le molestie ai giornalisti israeliani nell'”ambiente sicuro” della Coppa del mondo in Qatar), nella cultura e nello spettacolo: viene additato come un crimine il fatto in sé di sostenere il diritto degli ebrei all’autodeterminazione in Terra Santa.

A Surda-Abu Qash (Cisgiordania) una strada è intitolata a Muhannad Halabi, terrorista palestinese che nell’ottobre 2015 uccise Nehemiah Lavi e Aharon Banita e ferì a coltellate la moglie Adele Banita e il figlio di 2 anni. Il cippo celebrativo raffigura l’immancabile mappa della Palestina che prevede la cancellazione di Israele dalla carta geografica

3. I palestinesi e i loro sostenitori sono determinati a riscrivere la storia pur di negare legittimità alle rivendicazioni ebraiche in Terra Santa. Nella versione palestinese della realtà (adottata anche dall’Unesco e da risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu), solo i musulmani hanno un legame storico e religioso con il Monte del Tempio di Gerusalemme (noto ai musulmani come Haram al-Sharif). Parliamoci chiaro: questo è razzismo bell’e buono.

4. Quando i palestinesi insorsero contro gli inglesi, lo fecero dopo aver rifiutato l’idea di un paese pluralistico con un parlamento comune per ebrei e arabi (avanzata dall’Alto Commissario britannico Herbert Samuel): non stavano combattendo per ottenere più diritti (i loro diritti non erano mai stati compromessi), ma per tornare al “buon vecchio sistema” in cui gli ebrei “stavano al loro posto” ben sotto il tallone degli arabi. Anche se si accetta il concetto di un risveglio nazionalista locale, si devono comunque rifiutare i suoi elementi razzisti contro la minoranza ebraica.

5. Il totale rifiuto del carattere indigeno del popolo e della cultura ebraica. Non solo vengono negati i legami storici tra gli ebrei e la loro terra patria. I palestinesi e i loro sostenitori negano anche il retaggio faticosamente preservato dagli ebrei di discendenza araba: insultano gli ebrei perché cucinano i loro tradizionali cibi mediorientali o perché cantano melodie arabe, accusandoli di “appropriarsi della cultura dei palestinesi”: indifferenti al fatto che tutto questo fa parte della plurisecolare eredità degli ebrei di origine mediorientale.

6. Nel corso dei decenni i palestinesi hanno preservato il loro status di privilegio: costituiscono l’unica comunità di profughi al mondo che ha a disposizione un’esclusiva agenzia internazionale (l’Unrwa), finanziata nel corso degli anni con decine di miliardi di dollari, e il loro status di profugo è l’unico al modo che viene considerato permanente e si trasmette indefinitamente ai loro discendenti.

D’altra parte, per convincersi della vera natura della “causa palestinese” basta semplicemente guardare i cartelli e i poster sbandierati dai suoi sostenitori e la presenza pervasiva delle mappe che non fanno mistero del loro programma razzista, che mira a ripristinare i “bei vecchi tempi” (quando non c’era nessuna autodeterminazione statale ebraica).

Mettere in chiaro tutto questo non significa difendere le eventuali violazioni che possono verificarsi (e certamente succede) nel quadro della perdurante occupazione da parte di Israele della Cisgiordania. Si può, e si deve, criticare Israele se compie atti illegittimi o immorali nel difendere i suoi cittadini dagli attacchi, o se si appropria in modo indebito di terreni palestinesi. Il sistema giuridico israeliano è molto sensibile a tali problemi e si adopera per correggerli. Questo stesso sistema è oggi fortemente criticato da coloro che lo trovano troppo indulgente nei confronti dei palestinesi.

Ma niente di tutto ciò ha importanza per i sostenitori dei palestinesi, che continuano a sbandierare con orgoglio le loro ignobili mappe che promettono la distruzione del “malvagio” stato ebraico e il ritorno a un mitico status “naturale” e “buono” che sarebbe esistito prima del sionismo. Ma sappiamo tutti a quale sistema si riferiscono quelle mappe “pure e incontaminate”. Si chiama apartheid: i secoli di apartheid che gli ebrei hanno dovuto subire sotto il controllo arabo della Terra Santa. Quelle mappe e le persone che orgogliosamente le sbandierano sono o non razziste? Giudicate voi.

(Da. jns.org, 15.12.22)