La complessa politica di Israele che deve combinare lotta al terrorismo e misure per preservare la calma durante Ramadan e Pesach

Bennett: “Israele è passato all’offensiva”. Ma al momento, nonostante i continui allarmi terrorismo, Gerusalemme mantiene in vigore le agevolazioni previste per il mese sacro islamico

Di Yoav Limor

Yoav Limor, autore di questo articolo

Nonostante l’attentato a Tel Aviv della scorsa settimana e la segnalazione di altri piani terroristici in corso, Israele continua a perseguire nei confronti dei palestinesi una difficile politica che mira ad agire in modo mirato e differenziato. Si tratta, da un lato, di condurre una guerra senza quartiere al terrorismo, e dall’altro di cercare allo stesso tempo di non paralizzare l’economia palestinese consentendo a oltre 100mila palestinesi di entrare in Israele per lavoro e mantenendo in vigore le agevolazioni agli spostamenti previste per il mese di Ramadan.

E’ una politica non sempre condivisa da tutti. Anche prima dell’ultimo attentato di giovedì scorso, diversi esponenti politici e della difesa avevano detto che andrebbe cambiata (alla luce della nuova ondata di attacchi contro civili all’interno di Israele ndr). Come prevedibile, questa posizione si è andata rafforzando con l’aggravarsi del bilancio di vittime. Al momento, tuttavia, su raccomandazione dell’establishment della difesa è improbabile che il governo decida un cambiamento significativo di questa sua politica. Una scelta che rischia di attirarsi critiche molto aspre se, il cielo non voglia, dovesse verificarsi un altro attacco letale originato da Giudea e Samaria (Cisgiordania). Proprio per ridurre questo rischio, le Forze di Difesa israeliane saranno chiamate a intensificare le loro attività nella cosiddetta “zona di giuntura” tra Israele e le aree palestinesi di Giudea e Samaria, che si è nuovamente rivelata troppo permeabile.

Lo scorso fine settimana le forze militari israeliane sono entrate  a Jenin, un notorio centro di attività terroristica in cui ha una presenza massiccia la Jihad Islamica Palestinese, la cui sede principale è nella striscia di Gaza.

Terroristi della Jihad Islamica Palestinese durante un raduno a Gaza

L’obiettivo dichiarato dell’intervento era mappare la casa del terrorista in vista della sua demolizione (la demolizione delle case viene considerata dalle autorità israeliane una delle poche misure in grado di esercitare un effetto deterrente su terroristi votati al suicidio ndr). Ma la missione aveva anche lo scopo di inviare un messaggio preciso e cioè che le forze israeliane, quando necessario, non hanno remore a entrare in pieno giorno nel più grande vespaio terroristico di Cisgiordania. Voleva essere anche un avvertimento diretto alla Jihad Islamica Palestinese che, se continua a prendere di mira Israele, rischia di dover affrontare un’operazione militare molto più ampia.

Tale operazione – una versione ridotta dell’Operazione Scudo difensivo che nel 2002 portò a un quasi completo annientamento dell’infrastruttura terroristica in Cisgiordania – è da un po’ di tempo nei piani dell’establishment della difesa: almeno da quando è tornata ad emergere la carsica corrente terroristica che alligna a Jenin. Finora Israele ha evitato di lanciare una siffatta campagna militare sia nella speranza che le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese riescano a riaffermare il loro controllo sulla città, sia per la volontà di ridurre al minimo gli attriti in vista del mese del Ramadan, un periodo sempre ad alto rischio per la sicurezza. Ma nei giorni scorsi è apparso chiaro che molti esponenti della difesa sono sempre più favorevoli a questa opzione, con l’obiettivo di prosciugare la palude terrorista mediante arresti e confische di armi illegali.

La questione principale, ovviamente, è la preoccupazione che un’operazione del genere possa infiammare il resto di Giudea e Samaria, estendersi a Gerusalemme est ed anche rimettere in agitazione Gaza, tutte aree che fin qui sono rimaste relativamente calme. E’ l’eterno dilemma, che tuttavia non dovrebbe intimidire Israele. Proprio come alla vigilia dell’Operazione Scudo Difensivo di vent’anni fa, la domanda che i funzionari della difesa devono porsi non è cosa potrebbe accadere se le Forze di Difesa israeliane intraprendessero a Jenin un’operazione anti-terrorismo su larga scala, bensì cosa accadrebbe se non lo fanno.

Fino al momento in cui scriviamo, Israele sembra deciso a continuare a camminare sul filo del rasoio. Si tratta di una sfida estremamente difficile data la crescente allerta terroristica, che impone all’esercito il compito di rafforzare le difese su tutti i settori. Con la Pasqua ebraica, Israele decreterà come ogni anno una chiusura temporanea dei territori, ma non è affatto detto che basti. Israele, all’interno del quale si trovano sempre molti palestinesi entrati senza permesso, deve darsi da fare per prevenire le violazioni dei confini. Trasformare di nuovo la “zona di giuntura” in una barriera efficace richiederà un considerevole investimento di denaro ed energie.

(Da: Israel HaYom, 10.4.22)

Unità delle Forze di Difesa israeliane che stavano conducendo un’operazione antiterrorismo nell’area di Jenin, in Cisgiordania, sono state attaccate domenica a Ya’bad, un villaggio adiacente alla città dove viveva il terrorista che ha ucciso cinque persone nell’attentato del 29 marzo a Bnei Barak. Le truppe hanno risposto al fuoco e completato la missione, compiendo diversi arresti. Vi sarebbe un ferito fra gli attaccanti palestinesi. Sabato scorso, truppe israeliane entrate a Jenin, la città da cui proveniva il terrorista che il 7 aprile ha ucciso tre civili a Tel Aviv, erano state a loro volta attaccate da miliziani armati. Nello scontro a fuoco è stato ucciso un terrorista della Jihad Islamica palestinese.
(Da. Israel HaYom, 10.4.22)

Samir Saadi, vicesindaco di Nazareth (città araba nel nord di Israele), ha scritto sabato un post in cui esprimeva le condoglianze per la morte del miliziano della Jihad Islamica ucciso sabato a Jenin nello scontro a fuoco con soldati israeliani in missione antiterrorismo. “Invoco Allah perché lo accolga fra i martiri” si leggeva nel post, che è stato cancellato poco dopo la pubblicazione.
(Da: Jerusalem Post, 10.4.22)

Il governatore di Jenin, Akram Rajoub, ha definito un “combattente di Fatah” (la fazione che fa capo ad Abu Mazen) il terrorista di Jenin che ha compiuto l’attentato mortale di giovedì sera a Tel Aviv uccidendo tre civili israeliani. Rajoub, un funzionario di lunga data della sicurezza dell’Autorità Palestinese e membro della fazione al governo Fatah, ha poi confermato a Times of Israel e altri organi di stampa che non considera un terrorista l’attentatore di Tel Aviv bensì “un guerriero di Fatah”
(Da: Times of Israel)

“Arriveremo a chiunque abbia avuto un collegamento diretto o indiretto con gli attentati. Israele è passato all’offensiva”. Lo ha dichiarato il primo ministro israeliano Naftali Bennett visitando sabato sera i feriti nell’attentato a Tel Aviv. Bennett ha aggiunto: “Abbiamo operato a Jenin, dove risiedeva il terrorista che ha compiuto l’attentato di Tel Aviv. Stiamo operando anche in altre arene , alcune vicine e altre lontane, contro le sorgenti del terrorismo in ogni momento e in ogni luogo. Le Forze di Difesa hanno mano libera, insieme ad altre agenzie di sicurezza, nella lotta al terrorismo”.

Il Ministero degli esteri dell’Autorità Palestinese ha condannato queste parole di Bennett definendole una “licenza ufficiale di uccidere i palestinesi”.

La Tomba di Giuseppe (Nablus) vandalizzata e incendiata da dimostranti palestinesi

Bennett ha anche condannato il vandalismo perpetrato da un centinaio di palestinesi nel complesso della Tomba di Giuseppe, a Nablus. “Palestinesi hanno vandalizzato e incendiato la notte scorsa la Tomba di Giuseppe con l’intento di profanare un sito considerato sacro dagli ebrei – ha detto Bennett – Non rimarremo inerti dopo un atto del genere, perpetrato alla vigilia delle festività pasquali. Individueremo i colpevoli e ricostruiremo tutto ciò che è stato distrutto, come facciamo sempre”.

La Tomba di Giuseppe, che si trova in zona sotto giurisdizione dell’Autorità Palestinese, è stata spesso presa di mira da violenze palestinesi. Nel settembre 2021, decine di palestinesi attaccarono un convoglio di autobus che trasportava fedeli ebrei verso il luogo sacro. Nello scontro vennero feriti due militari di scorta. Nel 2015 la Tomba è stata data alle fiamme di rivoltosi palestinesi in concomitanza con lo scoppio della cosiddetta “intifada dei coltelli”. Nell’ottobre 2000, terroristi palestinesi attaccarono e incendiarono la Tomba, allora presidiata da un piccolo drappello militare, uccidendo un soldato israeliano.
(Da: YnetNews, Israel HaYom, 10.4.22)

Domenica pomeriggio, una palestinese che ha ferito a colpi di coltello un agente della polizia di frontiera israeliana in servizio alla Tomba dei Patriarchi, a Hebron, è rimasta uccisa dalla reazione dei militari. In precedenza, sempre domenica, nella zona di Gush Etzion (a sud di Gerusalemme) un’altra palestinese si è avventata sui soldati israeliani senza fermarsi all’alt né ai colpi sparati in aria. E’ stata poi colpita alle gambe, ma è deceduta nell’ospedale palestinese di Beit Jala per le ferite riportate. E’ risultata essere una vedova con sei figli a carico, disarmata.

Con una sentenza emessa domenica, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che l’Autorità Palestinese può essere ritenuta responsabile per la sua politica di pagare vitalizzi ai detenuti condannati per terrorismo e ai famigliari di terroristi morti compiendo attentati. Il giudice Yitzhak Amit ha scritto nella sentenza che la scelta di pagare i terroristi rende l’Autorità Palestinese direttamente responsabile delle loro azioni, da essa in questo modo approvate e incentivate.
(Da: Times of Israel, 10.4.22)