La democrazia israeliana è viva e vegeta, e lo si è visto in diretta tv la settimana scorsa
Tre campagne elettorali nel pieno rispetto delle leggi, manifestazioni di piazza libere e responsabili, udienze esemplari della Corte Suprema
Di Dov Lipman
Durante lo stallo politico degli ultimi 15 mesi, tutt’e due le parti dello scontro politico paventavano “la fine della democrazia israeliana”. Dopo aver assistito la scorsa settimana a due giorni di udienze della Corte Suprema sulle petizioni presentate contro la formazione del governo di unità nazionale Netanyahu-Gantz, è chiaro che la democrazia in Israele è decisamente viva e vegeta.
Contando solo quattro giudici su undici provenienti dal campo conservatore, molti davano quasi per scontato che la Corte avrebbe fatto tutto il possibile per inabilitare Benjamin Netanyahu dal formare il nuovo governo, perché formalmente incriminato (ma non ancora processato ndr), e che si sarebbe schierata a favore della tesi dei ricorrenti sulla illiceità dell’accordo di coalizione. Lungi da tutto ciò, le audizioni – trasmesse in diretta per garantire completa trasparenza, e seguite da non meno di un milione di israeliani – hanno mostrato un processo equo ed equilibrato.
I giudici, di idee liberali moderate e conservatrici, hanno diligentemente ascoltato le posizioni di tutte le parti presentate dai rappresentanti legali del Likud, di Blu-Bianco, dell’ufficio del Procuratore generale, della Knesset, dei partiti d’opposizione e di varie organizzazioni all’origine delle petizioni come il Movimento per la Qualità del Governo. Allo stesso tempo, i giudici non si sono trattenuti dal porre domande serie e calzanti, stando ben attenti a tenere fuori dal dibattimento la politica e a garantire che il processo fosse incentrato sulle questioni giuridiche di loro competenza.
Quando un avvocato per i firmatari ha sostenuto che la democrazia in Israele sarebbe collassata se la Corte avesse permesso a Netanyahu di guidare il nuovo governo, la presidente della Corte, la giudice liberal Esther Hayut, ha ripreso l’avvocato dicendo: “Questa affermazione non è appropriata. Una parte non può affermare che se la sua posizione non viene accettata, crollerà l’intera fabbrica dello stato di diritto”. Allo stesso modo, la presidente Hayut ha ripreso l’avvocato del Likud quando questi ha sostenuto che vi sarebbero state conseguenze devastanti per il paese se a Netanyahu fosse stato impedito di formare il governo.
I giudici hanno continuato a insistere con coerenza sul fatto che a loro spettava esprimersi solo su questioni giuridiche. Se non esiste una legge che vieti a Netanyahu di formare il governo, loro non possono impedirgli di farlo. Se non esiste una legge che venga violata dall’accordo di coalizione Gantz-Netanyahu, loro non possono invalidarlo. Quando un avvocato dei firmatari ha deplorato il tipo di società che sarebbe diventata quella d’Israele con un primo ministro sotto processo per corruzione, il giudice Yitzhak Amit ha osservato, in un passaggio esemplare: “Lei ci sta chiedendo di emettere una sentenza di tribunale per rendere migliore il mondo, ma questo non rientra nella nostra giurisdizione”.
I giudici hanno chiarito che non si sarebbero pronunciati su leggi che non sono state ancora approvate dal parlamento, anche se l’accordo di coalizione si propone di proporle e farle approvare. Allo stesso tempo, hanno indicato ai rappresentanti legali di Likud e Blu-Bianco i dubbi sollevati da alcune parti dell’accordo che, a loro parere, necessitavano d’essere appianati: e questo certamente rientrava nel loro ruolo di check and balance rispetto al legislativo e all’esecutivo. I due partiti infatti hanno apportato delle modifiche all’accordo e lo hanno ripresentato alla Corte meno di un giorno dopo la conclusione delle udienze.
Indipendentemente dalla decisione finale dei giudici, è la Storia stessa che è stata trasmessa in diretta televisiva per due giorni in un processo equo, equilibrato, ordinato e completamente trasparente, come deve avvenire in una democrazia. Sebbene tanti abbiano visto gli scorsi 15 mesi di instabilità politica come una macchia sullo stato ebraico, il fatto che il paese ha attraversato tre campagne elettorali nel pieno rispetto delle sue leggi e senza caos nelle strade dimostra che Israele rimane un faro di democrazia, in una regione piena di dittatori alla testa di paesi nei quali manca totalmente la possibilità di una transizione non violenta del potere.
C’è un ulteriore elemento che mette in evidenza la vitalità della democrazia israeliana. A parte le tre tornate elettorali e l’iter che ha portato alle formidabili udienze della Corte Suprema, i cittadini israeliani hanno continuato ad esprimere le loro forti opinioni organizzando manifestazioni pubbliche. Membri della sinistra hanno organizzato periodici raduni nelle pubbliche piazze e in particolare davanti della Knesset, chiedendo che a Netanyahu venisse negata la possibilità di formare il governo essendo incriminato, e che Blu-Bianco non portasse avanti quello che loro considerano un accordo di coalizione immorale. Membri della destra hanno manifestato davanti al tribunale e persino nei pressi delle abitazioni dei giudici, chiedendo che respingessero le petizioni per evitare quello che loro consideravano uno sconfinamento al di fuori dei poteri del giudiziario. Per tutto il tempo, il governo ha garantito il diritto di tutte le parti a riunirsi e manifestare nonostante le restrizioni anti-coronavirus, purché i partecipanti rispettassero le norme del distanziamento sociale in nome della sicurezza della popolazione generale. Anche queste proteste, con i loro discorsi e slogan né violenti né bellicosi, sono state un’ulteriore dimostrazione della vibrante democrazia di Israele.
Per quanto difficili e tumultuosi siano stati questi ultimi 15 mesi, per quanto possiamo sentirci frustrati dai nostri leader politici, e indipendentemente dal fatto che la vicenda sia sfociata in un nuovo governo o in una quarta tornata elettorale, il processo stesso – culminato nelle udienze della Corte Suprema della scorsa settimana – dimostra che lo stato relativamente giovane d’Israele, che ha appena compiuto 72 anni, si applica con successo a risolvere le sue questioni politiche, legali e costituzionali. E che continua a lavorare sulla sua stessa identità, cercando di configurare cosa significhi essere uno stato ebraico e democratico nel XXI secolo. E questa è un a realtà di fatto che merita di essere celebrata.
(Da. Jerusalem Post, 9.5.20)