La differenza fra diagnosi e invettiva

Un conto è rilevare un certo tasso di pregiudizi e discriminazioni, che esistono in Israele come dappertutto. Tutt’altro affermare che Israele sarebbe un paese “razzista”, che è falso.

M. Paganoni per NES n. 8, anno 19 - settembre 2007

image_1843Accade talvolta che un automobilista, mosso da rabbia o frustrazione, dia del cretino a un altro automobilista. Tutti sanno che non intende dire che l’altro è affetto da ritardo fisico e mentale per insufficienza tiroidea: questa infatti è la distanza che corre tra una diagnosi e un’invettiva.
Quando il principale tabloid israeliano Yediot Aharonot, ai primi di settembre, pubblica una brillante inchiesta giornalistica intitolandola “paese razzista”, siamo nel campo dell’invettiva più che della diagnosi. Può darsi che l’intento sia quello, encomiabile, di denunciare un fenomeno disdicevole – i pregiudizi – con toni abbastanza forti da smuovere le coscienze. Ma il rischio – come sottolinea il Jerusalem Post (6.09.07) – è quello di ottenere il risultato contrario. Infatti l’inflazione semantica, cioè l’invettiva, sconfina facilmente nella calunnia. E difficilmente la calunnia trova orecchie attente e disponibili, come accade appunto tra automobilisti. La calunnia può fare la gioia degli anti-israeliani ad oltranza, che trovano nuove munizioni fra gli israeliani stessi. Ma non fa fare neanche un passo avanti a chi ha veramente a cuore il miglioramento di Israele.
L’inchiesta di Yediot si è avvalsa di una squadra di reporter camuffati da comuni israeliani di diversa estrazione, sguinzagliati in giro per il paese a fingersi disoccupati in cerca di un lavoro o genitori in cerca di un asilo-nido. Non sorprendentemente è risultato che il “falso” askenazita, anche quando meno qualificato, ha avuto miglior fortuna dei “falsi” russo, marocchino, ultra-ortodosso, etiope e arabo. Di qui la denuncia di razzismo gridata in prima pagina.
Ma è un errore. Una cosa, infatti, è rilevare un certo tasso di pregiudizi e discriminazioni, che esistono in Israele come dappertutto (non c’è paese, per quanto democratico ed evoluto, che uscirebbe indenne da un’inchiesta come quella di Yediot). Tutt’altro è affermare che Israele, nel suo complesso e per definizione, è un paese “razzista”. Oppure, come accade spesso, un paese da apartheid. Che è una falsità, e poco importa che a ripeterla siano un giornalista di Ha’aretz come Danny Rubinstein, l’ex presidente Usa Jimmy Carter nel suo ultimo libro, giù giù fino all’ultimo dei fanatici anti-israeliani in stile Durban 2001.
Nessuno vuole qui negare che gli arabi israeliani patiscano di fatto delle forme di discriminazione economica e sociale, sulle cui cause si potrebbe riflettere a lungo, o che gli ebrei etiopi siano vittime di certi pregiudizi. Né, per contro, che esistano atteggiamenti di diffidenza e chiusura pregiudiziale da parte di alcuni gruppi (si pensi ad esempio a certi comportamenti diffusi fra i “russi” o gli ultra-ortodossi) verso il resto della popolazione israeliana. Si tratta di un problema serio, uno dei tanti che la società israeliana deve cercare di risolvere.
Ma il razzismo è tutt’altra cosa. Si ha razzismo quando un intero gruppo umano viene considerato superiore o inferiore, per nascita o caratteristiche fisiche. E si ha razzismo di stato quando questa presunzione viene tradotta in leggi e politiche, come era il caso dell’apartheid.
Nulla di tutto ciò in Israele. Ammesso e nient’affatto concesso che abbia senso parlare di “razze” umane, il popolo ebraico, che comprende persone di diverso colore e di diversa origine etnica e culturale, non costituisce in alcun senso una “razza”. È mai possibile convertirsi ad una razza?
In Israele la legge è tenuta a garantire “completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti gli abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso” (così recita la Dichiarazione d’indipendenza). Nel Sudafrica dell’apartheid, una minoranza di bianchi teneva sottomessa una maggioranza di neri privata dei più elementari diritti politici e fisicamente segregata. In Israele, una maggioranza di ebrei (bianchi o di vario colore) convive con una minoranza di arabi che gode degli stessi diritti politici, ha rappresentanti in parlamento e nel governo, è titolata ad usare gli stessi servizi pubblici e privati. Insomma, nel Sudafrica dell’apartheid c’erano i cartelli “Ingresso riservato a persone di razza bianca”, come nell’Italia di fine Ventennio la legge vietava alle persone di “razza ebraica” scuole, professioni, proprietà immobiliari: quelli erano paesi razzisti. In Israele, basta entrare in un qualunque ospedale e vedere medici ebrei e arabi che curano indifferentemente pazienti arabi ed ebrei, o entrare in una università dove professori arabi ed ebrei insegnano a studenti ebrei e arabi, per capire che l’accusa di razzismo è campata per aria.
Ingannevole anche tacciare di razzismo la Legge del Ritorno, facendo credere che essa limiti ai soli ebrei la possibilità di essere o diventare cittadini israeliani. Il che è falso, giacché la cittadinanza israeliana può essere acquisita, oltre che attraverso la Legge del Ritorno, anche per nascita, residenza o naturalizzazione, indipendentemente da credo o etnia, secondo norme del tutto simili a quelle degli altri paesi. “Il premier Menachem Begin accordò la cittadinanza ai profughi del Vietnam, lo stesso dobbiamo fare noi oggi”. Queste le parole con cui il ministro degli interni Meir Shitrit ha annunciato ai primi di settembre di voler accordare la cittadinanza ad alcune centinaia di profughi (africani musulmani) arrivati dal Darfur. Poi Israele, in applicazione di un recente accordo con il presidente egiziano Hosni Mubarak, per la prima volta ha respinto in Egitto alcune decine di profughi africani (molti sudanesi, solo alcuni dal Darfur) che a fine agosto avevano tentato di entrare clandestinamente in Israele. Ne è scaturita un’infuocata querelle internazionale. Ma “resta il fatto – ha notato Stefano Jesurum (Corriere della Sera Magazine, 13.09.07) – che nessuno, dico nessuno, ha segnalato (e chessò, magari provato a ragionarci sopra) che nel 2007 alcune migliaia di islamici africani hanno cercato di trasferirsi in Israele… e che il mondo ebraico israeliano e americano si sono subito mobilitati in una gara di solidarietà sia politica che economica, mentre né dagli arabi israeliani né dai paesi arabi si è alzata la benché flebile difesa”.
L’accusa di apartheid non regge nemmeno nei territori di Cisgiordania e Gaza, quei territori che da almeno quindici anni Israele ha accettato di trasferire in grandissima parte al futuro stato palestinese indipendente. Nel frattempo tutte le misure difensive israeliane, sistematicamente adottate dopo gli assalti del terrorismo, vengono descritte dagli accusatori come atti ferocemente arbitrari, motivati da puro accanimento razzista. A cominciare dalla barriera difensiva: quel “muro” (che è muro per meno del 5%) che pure ha contribuito ad abbattere drasticamente il numero di attentati e di vittime del terrorismo. Inutile ricordare che per 35 anni nessuno in Israele aveva mai pensato di erigere una tale barriera, finché non è arrivata la seconda intifada con la sua micidiale sequenza di attentati.
Ancora più subdola l’accusa di apartheid alle “bypass road”, falsamente definite “strade per soli ebrei” persino da Ha’aretz e da una navigata politica israeliana come Shulamit Aloni (YnetNews, 31.12.06). E’ vero invece, come spiega Tamar Sternthal (YnetNews, 19.02.07), che “tutti gli arabi israeliani, e i cittadini israeliani di qualunque fede o etnia, hanno esattamente lo stesso diritto dei cittadini ebrei di percorrere quelle strade”, il cui uso è limitato ai veicoli con targa israeliana per ovvie ragioni di sicurezza. E che la “razza” non c’entra per nulla. Infatti gli arabi israeliani le usano di frequente. Tanto è vero che un arabo israeliano, Wael Ghanem, venne ucciso il 7 agosto 2001 su una di queste strade, presso Kalkilya, in un’imboscata di terroristi palestinesi convinti – loro sì secondo una logica razzista – di colpire un ebreo. Stessa sorte è toccata a un monaco greco ortodosso, Georgios Tsibouktzakis, ucciso il 12 giugno 2001 da terroristi palestinesi su una di quelle strade che essi evidentemente credevano – come i propagandisti anti-israeliani – riservate a “soli ebrei”. E di nuovo, l’11 giugno 2006, un arabo di Gerusalemme est, Marwan Abed Shweika, è stato ucciso sulla superstrada 443. Insomma, strade “per soli ebrei” sulle quali trovano la morte arabi musulmani e greci ortodossi. Casomai – conclude la Sternthal – il vero razzismo sta in coloro che “si dimenticano” di quel 20% di israeliani non ebrei che usano regolarmente quelle strade perché godono degli stessi diritti della maggioranza ebraica. Con buona pace dell’apartheid.

Nella foto in alto: Un cartello razzista nel Sudafrica del vero apartheid.