La difficile gestione del conflitto con Gaza

Non c’è dubbio che Hamas è responsabile delle condizioni di Gaza, ma a 13 anni dal ritiro di Israele è ora di prendere l'iniziativa e tentare qualcosa di diverso

Editoriale del Jerusalem Post

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita lunedì ad un asilo di Sderot

“Sono profondamente convinto che questo disimpegno rafforzerà Israele nel mantenimento della terra necessaria alla nostra esistenza e sarà apprezzato da tutti, vicini e lontani, ridurrà l’odio, romperà assedi e boicottaggi e favorirà la pace con i palestinesi e gli altri nostri vicini”. È così che l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon presentava, nel 2004, il suo piano per il disimpegno totale dalla striscia di Gaza. Quattordici anni dopo sappiamo che le cose non sono andate, a dir poco, come previsto da Sharon. Lo scorso fine settimana, Israele è stata colpito da una raffica di centinaia di ordigni lanciati dalla striscia di Gaza controllata da Hamas. L’aviazione ha reagito, dando luogo a uno schema che abbiamo visto all’opera più e più volte, da quando Israele ha completamente lasciato Gaza nel 2005, con l’avvicendarsi di continui alti e bassi nel livello di lanci di razzi e ordigni.

Negli ultimi tre mesi, da quando è stata lanciata la cosiddetta “marcia del ritorno”, si è avuto un costante aumento degli attacchi da Gaza contro Israele, con migliaia di ettari di territorio israeliano bruciati dagli aquiloni incendiari e raffiche di razzi seguite da cessate il fuoco fin troppo brevi. Gli israeliani che vivono in tutta la regione attorno alla striscia di Gaza sono ancora una volta costretti a correre al riparo nei rifugi. C’è un frustrante senso di déjà vu dei prodromi delle scorse operazioni che le Forze di Difesa israeliane sono state costrette a compiere a Gaza. Sono passati quattro anni dall’operazione anti-Hamas dell’estate 2014, e sembra quasi inevitabile che ve ne debba essere un’altra analoga.

Non c’è il minimo dubbio sul fatto che Hamas, l’organizzazione dispotica e teocratica che comanda a Gaza, è la prima e principale responsabile delle violenze periodicamente scatenate contro civili e militari israeliani, e delle penose condizioni in cui vivono gli abitanti di Gaza. Tuttavia, ciò non significa che il governo israeliano non debba cercare nuovi modi per imprimere un cambiamento. Sebbene la maggior parte delle promesse del disimpegno siano andate disattese, ciò non vuol dire che gli israeliani debbano essere condannati a vivere per sempre sotto il fuoco di razzi e a combattere sempre la stessa mini-guerra ogni pochi anni. Dal 2005 Israele reagisce agli attacchi di Hamas e Jihad Islamica il più delle volte adoperandosi affinché le cose non degenerino in un’escalation eccessiva, e devolvono sempre più risorse nei dispostivi difensivi, come le batterie anti-missile “Cupola di ferro” e il rafforzamento anti-razzo di rifugi ed edifici in tutta l’area attorno a Gaza, apparentemente senza un piano o una strategia globale anti-Hamas.

Razzi palestinesi lanciati sabato scorso da Gaza verso Israele

La questione è complessa ed è assai improbabile che si possa trovare una soluzione radicale in grado di risolvere i problemi che Israele deve affrontare con Gaza, ma sarebbe ora di prendere l’iniziativa e tentare qualcosa di diverso. Domenica mattina il ministro dell’istruzione Naftali Bennett (Bayit Yehudi) ha chiesto una risposta militare su vasta scala agli attacchi da Gaza. Sembrerebbe una riedizione di ciò che succede ogni pochi anni, ma se l’obiettivo strategico fosse qualcosa di più della semplice “tranquillità per un po’ di tempo”, forse potrebbe rompere lo schema ripetitivo. In caso contrario, c’è da chiedersi se gli israeliani siano disposti a subire di nuovo considerevoli perdite fra i soldati, come nell’estate 2014, solo per vedere la situazione che si ripete dopo pochi anni.

Altri, dall’opposizione e nella comunità internazionale, invocano massicci aiuti umanitari allo scopo di migliorare la qualità della vita degli abitanti di Gaza, in base alla teoria che ciò farebbe diminuire il terrorismo. In realtà, nulla prova che questa correlazione abbia mai funzionato nella striscia di Gaza controllata da Hamas (né si può dimenticare che il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen si oppone con forza a questi aiuti umanitari nel timore che rafforzino i suoi rivali di Hamas). Tuttavia non sembra che vi sarebbero grandi svantaggi, a condizione che Israele possa garantirsi che gli aiuti non vengano utilizzati per preparare e condurre attacchi.

In effetti, esiste una scontro all’interno di Hamas, come riportato da Khaled Abu Toameh sul Jerusalem Post la scorsa settimana, tra l’ala del rifiuto, preoccupata che accettare le offerte di aiuti occidentali possa indebolire il controllo da parte del gruppo terrorista islamista (cosa che sarebbe solo positiva per Israele), e l’ala di coloro che temono che gli abitanti di Gaza finiscano per rivoltarsi se Hamas non farà qualcosa per migliorare la loro vita.

Esistono poi altre idee, come quella del ministro dei trasporti e dell’intelligence Israel Katz di fare appello a partner internazionali per costruire un porto su un’isola artificiale al largo della costa di Gaza allo scopo di alleviarne le questioni umanitarie e affrancare Israele dalle responsabilità che gli vengono attribuite. (Di recente il ministro della difesa Avigdor Lieberman ha proposto di usare a questo scopo un porto di Cipro, previo accordo con quel paese.) L’anno scorso, Katz ha sostenuto in un’intervista al Jerusalem Post che la sua è “l’unica vera idea” per fare progressi nella situazione a Gaza. “Il resto – ha detto – è solo contenimento”.

Ognuna di queste idee presenta vantaggi e svantaggi, ma hanno il vantaggio di essere qualcosa di diverso dalla semplice “gestione del conflitto” che in effetti, dopo tredici anni di ripetizione dello stesso copione, sembra diventata una non-gestione.

(Da: Jerusalem Post, 16.7.18)

Un incendio appiccatto lundì mattina da ordigni palestinesi fra i kibbutz Karmiya e Yad Mordechai

“Stiamo combattendo una continua battaglia a difesa del sionismo: combattiamo contro il terrorismo da cento anni, con grande determinazione. Oggi questo luogo è il punto di attrito tra il terrorismo islamista e lo stato ebraico, e noi siamo più che mai determinati a vincere”. Lo ha detto lunedì mattina il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una visita alla città di Sderot, colpita lo scorso fine settimana da una pioggia di razzi di Hamas.

“Ora che stiamo ponendo fine alla minaccia dei tunnel d’infiltrazione e stiamo riuscendo a contenere gli assalti di massa alla recinzione di confine – ha continuato Netanyahu – abbiamo dato disposizione alle Forze di Difesa di intervenire per fermare anche il terrorismo degli aquiloni e palloni incendiari. Siamo nel mezzo di un processo. È importante che Hamas capisca che si trova di fronte a un muro d’acciaio, e che questo muro è costituito essenzialmente da un governo determinato, una leadership locale risoluta, comunità civili dotate di un grande spirito di resistenza di cui siamo fieri e che continueremo a sostenere, e naturalmente dalle nostre forze armate. Non è cosa che si possa risolvere in un colpo solo, anche se questo fatto è molto difficile da accettare. Ma sappiamo che stiamo combattendo una battaglia a lungo termine per il sionismo”. Netanyahu ha anche ribadito ciò che aveva già affermato domenica, e cioè che “per Israele, non esiste un cessate il fuoco che non comprenda anche gli ordigni incendiari. Semplicemente non esiste”. E ha aggiunto: “Lo ripeto per l’ennesima volta e spero che il concetto venga ben compreso. Altrimenti, se non verrà compreso dalle mie parole, verrà compreso dalle azioni delle nostre Forze di Difesa”.

Lunedì pomeriggio le Forze di Difesa israeliane hanno attaccato due postazioni di Hamas, a Beit Hanoun e a Jabalia, da dove i palestinesi nella mattinata avevano lanciato dei palloni incendiari che avevano appiccato incendi tra il kibbutz Karmiya e il kibbutz Yad Mordechai.

(Da: YnetNews, Jerusalem Post, 16.7.18)