La difficile regione in cui vive Israele, e le ramanzine di Obama

Il M.O. visto da Gerusalemme non è il M.O. visto da Washington.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_3640Scrive Guy Bechor, su Yediot Aharonot: «La Siria, come paese, non esiste più. Coloro che vi governano sono i signori della guerra: i capi delle bande armate, delle comunità etniche e delle milizie. È così che appariva la Siria alla vigilia dell’occupazione francese, agli inizi del XX secolo: l’Impero Ottomano vi esercitava un potere più che altro teorico, a distanza, mentre il controllo sul territorio era nelle mani dei capi delle bande e delle comunità etniche. La Siria è il primo stato arabo andato effettivamente in pezzi e scomparso; dopo di che c’è la Libia, che pure si è frantumata in tribù; e poi l’Iraq, che è sull’orlo di un’esplosione etnica e tribale infarcita di una sempre più ampia intifada sunnita contro il regime sciita. Ora si può ben capire quanto fosse superficiale l’invenzione del “nazionalismo” arabo in Medio Oriente. “Popolo palestinese”? Ora è dimostrato che non esiste nemmeno un “popolo siriano”, un “popolo iracheno” o un “popolo libanese”».
(Da: Yediot Aharonot, 17.1.13)

L’editoriale del Jerusalem Post commenta il nuovo processo che il deposto presidente egiziano Hosni Mubarak deve affrontare, e scrive: «E’ assai probabile che ci troveremo di fronte a un altro processo farsa, a un altro spettacolo ad uso e consumo delle masse». L’editoriale ricorda che «una vera democrazia, per esistere, deve includere una stampa libera senza mordacchia, libertà di espressione senza intimidazioni e specialmente, a proteggere il tutto, un sistema giudiziario realmente indipendente: un punto che, a quanto pare, è stato ignorato dall’amministrazione Obama e dall’Unione Europea nel loro precipitoso abbraccio a Morsi. Il nuovo processo a carico di Mubarak ci ricorda ancora una volta che abbiamo motivo di preoccuparci».
(Da: Jerusalem Post, 17.1.13)

Oded Tira scrive su Ma’ariv che «gli Stati Uniti hanno ormai accettato un Iran nucleare» e attribuisce questo sviluppo, in parte, alle «voci che si sono levate da Israele». Secondo l’editorialista, «tutti quegli esperti di sicurezza che si sono pubblicamente opposti a qualunque ipotesi di opzione militare hanno causato un grave danno».
(Da: Ma’ariv, 17.1.13)

L’editoriale di Ha’aretz esorta il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a dare ascolto agli avvertimenti del presidente Barack Obama, e scrive: «Si tratta di utile materia di riflessione, gentilmente offerta ai cittadini israeliani prima che si ritraggano nel loro guscio di apatia eleggendo un governo tutto di destra, composto da Likud, Israel Beitenu, Casa Ebraica e partiti ultra-ortodossi, che condurrebbe il paese allo scontro con Obama e il resto del mondo».
(Da: Ha’aretz, 16.1.13)

Scrive, sul Jerusalem Post, Thelma Jacobson, una lettrice di Petah Tikva: «Il giornalista americano Jeffrey Goldberg ha detto che, secondo Obama, è la politica israeliana degli insediamenti ciò che preclude la soluzione a due stati. Sbagliato. L’Assemblea Generale dell’Onu e l’Unione Europea avrebbero dovuto garantire gli accordi di Oslo: nulla doveva essere fatto senza l’accordo di entrambe le parti. Gli europei hanno deciso di non tener fede ai propri impegni e hanno dato ai palestinesi quello che volevano in cambio di niente, sbattendo la porta alla soluzione. Questo comportamento, per inciso, ci mostra quanto valgano gli accordi firmati. Ma peggio ancora è l’affermazione che Goldberg attribuisce a Obama secondo cui Israele “non sa quale sia il suo stesso interesse”. Il che implica che noi israeliani siamo dei bambini cattivi che hanno bisogno di un adulto che li metta in riga. Una stupidaggine offensiva. Chiunque fosse qui solo poche settimane fa avrebbe constatato ancora una volta che, non appena cediamo territorio al nemico, ci becchiamo razzi sulla testa. Israele sa bene cosa è nel suo interesse: certo non lo è cedere territori in cambio della firma di accordi che non valgono la carta su cui sono scritti».
(Da: Jerusalem Post, 17.1.13)

Scrive, sul Jerusalem Post, Gerry Mandell, un lettore di Omer: «L’opinione diffusa fra tanti commentatori stranieri (e israeliani) è che Israele non faccia abbastanza per arrivare alla pace. Immaginiamo per assurdo che, tutto a un tratto e senza pre-condizioni, i palestinesi si stanchino di invocare la nostra distruzione e vogliano solo vivere in pace la loro vita. E immaginiamo per un momento che, pur di farsi il loro stato in pace a fianco di Israele, vengano incontro a tutte le esigenze di Israele: nessun “diritto al ritorno”, annessione dei blocchi di insediamenti con scambi di territori, demilitarizzazione, garanzie di sicurezza eccetera. E che riconoscano anche Israele come lo stato nazionale del popolo ebraico, firmando persino un documento che proclami ufficialmente “la fine del conflitto”. E, sempre per assurdo, immaginiamo che anche Hamas sottoscriva tale accordo. Forse che per questo vi sarebbe la pace? Naturalmente no. Gli stati arabi non la permetterebbero, perché sarebbe un bene per gli ebrei (e poco importa che sarebbe un bene anche per i palestinesi). E poi c’è la questione non proprio trascurabile della teologia islamista che pretende di rivendicare tutte le terre che sono state una volta sotto sovranità musulmana (da Israele all’Andalusia). Quanto vorrei che la gente che accusa Israele per la mancanza di pace capisse la realtà in cui viviamo».
(Da: Jerusalem Post, 17.1.13)

Scrive Dan Margalit, su Yisrael Hayom, che la recente controversia circa le frasi sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu attribuite al presidente Barack Obama, a quanto risulta dagli ultimi sondaggi finali, non ha minimamente influenzato le intenzioni di voto degli israeliani per le elezioni di martedì prossimo».
(Da: Yisrael Hayom, 17.1.13)

Nella vignetta in alto (da Israel HaYom): L’elettore israeliano a Obama: “Posso avere un po’ di privacy almeno qui?”

Si veda anche: