La disumana violazione che è sfuggita al rapporto Goldstone

Gilad Shalit non è un prigioniero di guerra, ma un ostaggio nelle mani di terroristi spietati

di Ze'ev Segal

image_2625A chi fosse sfuggito l’incomprensibile gap che corre tra, da una parte, le inequivocabili conclusioni della commissione Goldstone che condannano Israele e le sue giustificazioni per l’offensiva anti-Hamas a Gaza e, dall’altra, l’enunciazione tenue e irresoluta che la stessa commissione utilizza quando deve criticare i palestinesi, può essere utile rileggere il breve brano del rapporto consacrato alla “perdurante detenzione del soldato israeliano Gilad Shalit”.
La versione ufficiale del rapporto dedica solo due delle sue 452 pagine alla cattività di Shalit, a parte qualche fuggevole citazione del suo nome là dove descrive il background dell’operazione israeliana. E se normalmente il rapporto fa ricorso a un linguaggio assai duro, le sue enunciazioni si fanno improvvisamente molto concise e trattenute quando affronta questa materia.
La commissione riconosce Shalit come un prigioniero di guerra e quindi come qualcuno che dovrebbe essere protetto dalla Terza Convenzione di Ginevra. Impedire alla Croce Rossa di visitare qualcuno protetto da tale Convenzione costituisce un grave colpo e una evidente violazione del diritto umanitario internazionale. Ma il rapporto della commissione evita di soffermarsi su questo aspetto, o di entrare nei dettagli delle esplicite disposizioni della Convenzione su questa materia, e si guarda bene dal sottolineare che Shalit è stato trattenuto in cattività per più di tre anni senza che alla famiglia né a un qualunque ente autorizzato venisse trasmessa praticamente nessuna vitale informazione sulle sue condizioni.
Il video di Shalit diffuso venerdì scorso, dopo più di 1.200 giorni nella mani di Hamas in una località sconosciuta, non attenua in nulla la gravità dell’abuso fin qui perpetrato ai danni di Shalit e dei suoi famigliari col fatto di privarli di qualunque informazione sulla sua sorte per un tempo così esasperatamente lungo. Come ha fatto notare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il filmato “scioglie” l’interrogativo se Gilad sia vivo, ma non fa molto di più. E la differenza fra diffondere questo filmato e permettere al personale della Croce Rossa di incontrare di persona Shalit rimane enorme.
Il video, dettato dai sequestratori in un ogni minimo dettaglio, potrebbe venire erroneamente considerato un sufficiente sostituto dei dovuti incontri fra Shalit e il personale della Croce Rossa. E invece bisogna come minimo ricordare che questo video non è stato consegnato dai terroristi palestinesi per rispondere a una minima richieta umanitaria internazionale, bensì come frutto esso stesso di un feroce ricatto, in cambio della scarcerazione di una ventina di detenute palestinesi che scontavano pene (dopo regolare processo, e con regolari visite di famigliari, avvocati, personale internazionale) per reati legati al terrorismo.
Nel rapporto Goldstone tutto l’interminabile affare Shalit merita solo una scarna descrizione, ed anche questa si occupa per lo più del fatto che Israele ha colpito degli edifici a Gaza e arrestato degli esponenti governativi palestinesi allo scopo di ottenere il suo rilascio. L’audizione del padre, Noam Shalit, davanti alla commissione a Ginevra lo scorso luglio merita solo due frasi, e non è più lunga l’anemica conclusione del rapporto circa l’obbligo di Hamas di permettere che Gilad abbia contatti con il mondo esterno e che vengano permesse visite della Croce Rossa “senza indugio”.
A quanto è dato sapere, i membri della commissione non chiesero nemmeno di poter vedere Shalit nei giorni del loro sopraluogo nella striscia di Gaza. Ma nelle due sole pagine del rapporto dedicate al soldato in ostaggio trovano il tempo di esprimere preoccupazione per le affermazioni rilasciate da alcuni leader israeliani circa la prosecuzione del “blocco” di Gaza finché Shalit rimane nelle mani dei suoi rapitori. La commissione la considera una “punizione collettiva” della popolazione civile, e sottolinea d’aver ascoltato il resoconto di testimoni secondo i quali – c’è da sorprendersi? – durante l’operazione a Gaza i soldati israeliani interrogavano i palestinesi arrestati sulla sorte di Shalit.
È difficile credere che la raccomandazione contenuta nel rapporto di permettere visite a Shalit “senza indugio” riecheggerà e livello internazionale. Ma questo non vuol dire che sia superfluo ricordarla, insieme alla richiesta di un’indagine indipendente sui 36 incidenti descritti nel rapporto.
Anzi, la non applicazione delle conclusioni del rapporto riguardo alle visite della Croce Rossa a Shalit dovrebbe rilanciare la proposta di negare le visite famigliari ai detenuti di Hamas in Israele. Alcuni mesi fa, infatti, un gruppo di parlamentari israeliani aveva inoltrato una proposta di legge volta a impedire visite dei famigliari a qualunque detenuto affiliato a un’organizzazione terroristica che trattenesse in cattività un cittadino o residente israeliano rifiutandosi di permettere incontri con tale prigioniero. La proposta – che il governo potrebbe attuare anche senza un’apposita legge – non è sproporzionata né costituisce una violazione del diritto internazionale giacché permetterebbe comunque ai detenuti in questione di incontrare i loro avvocati e il personale della Croce Rossa.
Negare qualunque informazione sulla sorte di Shalit per più di tre anni è un atto semplicemente disumano, e nessun video meticolosamente allestito potrà cambiare questo dato di fatto. Se il filmato diffuso indica, come sostiene Hamas, che Shalit è in buone condizioni e che ha “eccellenti rapporti” coi suoi sequestratori – come afferma l’ostaggio leggendo le parole accuratamente dettate dai carcerieri – allora Hamas non dovrebbe avere nulla da nascondere.
Israele deve continuare a insistere perché al personale della Croce Rossa venga permesso di incontrare l’ostaggio. Anzi, questa visita dovrebbe essere il prossimo passo.

(Da: Haaretz, 5.10.09)