La finta moderazione di Hamas

Cenni di moderazione così impercettibili che risulta difficile parlare di offensiva del sorriso.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1110Lo sapevano tutti che sarebbe successo. Dopo la sorprendete affermazione elettorale, Hamas avrebbe cercato di apparire più moderata per preservare il flusso di aiuti finanziari occidentali. Se c’è qualcosa che sorprende, adesso, non è che Hamas si atteggi a moderata, bensì il fatto che i suoi cenni di moderazione sono così impercettibili che risulta assai difficile denotarli come la classica “offensiva del sorriso”.
In un’intervista sabato scorso al Washington Post è stato ripetutamente chiesto al primo ministro incaricato di Hamas Ismail Haniyeh se Hamas sia disposta ad attenersi ai principi posti dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), vale a dire riconoscimento di Israele, rinuncia al terrorismo, accettazione degli accordi già firmati. “Di che confini e di che Israele stiamo parlando? – è tutto ciò che Haniyeh ha saputo rispondere – Prima Israele deve riconoscere lo stato palestinese e i suoi confini, e allora noi sapremo di che cosa stiamo parlando”. Secondo il Washington Post, pressato dalle domande Haniyeh ha poi aggiunto: “Se Israele si ritirerà sui confini del 1967, allora accetteremo una pace per tappe”. Ma domenica Haniyeh ha smentito anche questa relativa moderazione, il cui senso sarebbe stato quello di suggerire che le richieste di Hamas hanno dei limiti e che potrebbero essere accolte senza comportare necessariamente la scomparsa di Israele. “Non ho detto nulla circa un riconoscimento di Israele”, si è affrettato a specificare il leader di Hamas. Insomma, è stato clamorosamente frainteso. E non ha parlato neanche di pace, bensì solo di una “tregua politica” vincolata a una quantità di precondizioni.
In effetti, Hamas non si sta dando particolarmente da fare per offrire appigli a tutti coloro che desiderano credere nelle sue potenziali credenziali di moderazione. E i suoi capi sono ben contenti di continuare a spiegare, in arabo al pubblico arabo, quali sono esattamente i loro obiettivi strategici. Lo scorso 14 febbraio, la tv Al Jazeera ha mandato in onda un’intervista fatta in Sudan al leader di Hamas Khaled Mashaal, quello che di recente è stato calorosamente ricevuto dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad a Teheran. “Noi – affermava Mashaal – diciamo alla nazione islamica: non vuoi pagare la beneficenza né combattere la jihad [guerra santa]?…. E allora come potremo liberare la Palestina? Come potremo riprendere la moschea di al-Aqsa? Come potremo essere una grande nazione dinanzi al mondo? Per lddio, non abbiamo altra scelta che sacrificare le nostre proprietà e le nostre anime… Non c’è altra via”.
In un’altra intervista in arabo su Dream TV 2 (Egitto, 13 febbraio) anche l’alto esponente di Hamas Moussa Abu Marzouk non cercava nemmeno di misurare le parole: “Noi diciamo che tutta la Palestina, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo] appartiene ai palestinesi”. L’intervistatore faceva notare che “questa è la versione diretta alla vostra gente, mentre la versione diretta all’esterno parla del 1967”. Al che Abu Marzouk replicava: “Noi diciamo la stessa cosa in tutti i consessi. Ma diciamo anche che facciamo i conti realisticamente con la fase attuale: uno stato palestinese indipendente con piena sovranità su Cisgiordania, Gerusalemme e striscia di Gaza. Questo è ciò che abbiamo presentato alla nostra gente nella nostra piattaforma elettorale”. Non contento, l’intervistatore chiedeva: “Si tratta di una soluzione parziale o per tappe?”, e Abu Marzouk confermava: “Sì, una soluzione temporanea e una soluzione per tappe. Non è la soluzione definitiva”.
In altri termini, in misura minima Hamas è disposta ad assecondare il desiderio occidentale di sostenere i palestinesi in base al presupposto che i palestinesi abbiano sinceramente accettato la soluzione due-stati, che prevede l’esistenza di Israele. Ma i capi di Hamas continuano a spiegare a chiunque sia disposto ad ascoltarli che i loro riferimenti alle linee del 1967 non hanno nulla a che fare con la presunta intenzione di vivere in pace a fianco di Israele.
La cruda realtà è che i palestinesi hanno eletto dei leader che non credono affatto nella soluzione due-stati, se non per quella minima misura in cui una tale “soluzione” può tornare utile per favorire la liquidazione di Israele. Questo significa che è stata rimossa la maschera di adesione alla Road Map del Quartetto mantenuta da Yasser Arafat e poi da Mahmoud Abbas (Abu Mazen). E significa anche che sono i palestinesi, non Israele, che si oppongono fondamentalmente al concetto di “terra in cambio di pace”, quello su cui si regge tutto il processo di pace.
Venerdì scorso il presidente americano George Bush ha dichiarato: “La comunità internazionale deve continuare a mettere in chiaro a Hamas che i leader democraticamente eletti non possono tenere il piede contemporaneamente nel campo della democrazia e nel campo del terrorismo… I leader di Hamas devono fare una scelta. Se vogliono l’aiuto dell’America e della comunità internazionale devono riconoscere Israele, deporre le armi, ripudiare il terrorismo e adoperarsi per una pace duratura”. Questo è l’approccio corretto. È la comunità internazionale che deve finalmente dare seguito alle sue stesse prese di posizione ed esigere dalla dirigenza palestinese che risponda delle proprie azioni, negandole i finanziamenti se essa non vi si attiene, anziché cercare o inventare nuove foglie di fico per l’intransigenza palestinese.

(Da: Jerusalem Post, 27.02.06)