La guerra dei coltelli pugnala alle spalle la fiducia degli israeliani

La storica concessione di Moshé Dayan nel ’67 circa il Monte del Tempio viene oggi ricompensata con calunnie e violenza

Di David Horovitz

David Horovitz, autore di questo articolo

David Horovitz, autore di questo articolo

Questa guerra dei coltelli nasce da una forma di intolleranza isterica e persistente. E la dimostrata inutilità dello spargimento di altro sangue – la totale, nauseante e deprimente futilità di tutto questo – con tutta evidenza non funziona da deterrente.

Questa vampata scaturisce dalla tenace diffusione della falsa accusa a Israele di voler consentire agli ebrei di pregare sulla spianata del Monte del Tempio di Gerusalemme, o di voler in qualche altro modo modificare la politica che Israele ha mantenuto per decenni in quello che è verosimilmente uno dei luoghi santi più infiammabili del mondo. La menzogna è stata metodicamente diffusa da nemici come Hamas, Fatah e dagli estremisti del “ramo settentrionale” del Movimento Islamico israeliano, ampiamente propagandata nelle moschee e sui social-network e alimentata dalla straordinaria irresponsabilità di diversi politici arabo-israeliani, del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen (che ha usato il podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per accusare Israele di mandare “estremisti” dentro la moschea di Al-Aqsa) e di alcuni esponenti dell’estrema destra israeliana che, da piromani fraudolenti, hanno lasciato intendere che il governo Netanyahu stava valutando nuove politiche. Lo stesso Netanyahu avrebbe dovuto agire più rapidamente, vietando prima di quanto abbia fatto le visite provocatorie al Monte del Tempio di vari parlamentari, sia arabi che ebrei, e prendere più seccamente le distanze dai discorsi dell’estrema destra su eventuali modifiche ad uno status quo rigorosamente fatto rispettare per quasi mezzo secolo.

Come stiamo vedendo – negli ultimi giorni, al ritmo di un incidente ogni poche ore – giovani palestinesi ben indottrinati e molto influenzabili si sono convinti che il loro Dio impone loro di uccidere e, se necessario, farsi uccidere per “difendere al-Aqsa”. Giacché le parole stanno fomentando gesti omicidi in quest’ennesima reiterazione del conflitto, ora c’è urgente bisogno di parole diverse, parole oneste, sagge e sensibili da parte di leader responsabili, che contribuiscano ad avviare un processo di de-escalation. Alla radice di questo nuovo sbandamento sanguinoso, già molto penoso e potenzialmente disastroso, c’è come sempre lo scontro di opposte narrazioni: ed è su questo terreno di scontro che sono ora chiamati con urgenza ad agire i leader più responsabili.

Vignetta della propaganda sui social-network palestinesi a favore della "intifada dei coltelli" a "difesa" della moschea di al-Aqsa

Vignetta della propaganda palestinese sui social-network che esalta l'”intifada dei coltelli” a “difesa” della moschea di al-Aqsa

La personalità più deludente, in questo contesto, l’uomo che potrebbe fare di più per aiutare a ridurre le fiamme, è Abu Mazen. Sebbene non promuova direttamente il terrorismo, Abu Mazen sembra trasmutarsi sempre più nel suo defunto predecessore e maestro, il non rimpianto Yasser Arafat. Se a suo tempo Arafat garantiva al suo popolo che non vi era mai stato nessun Tempio ebraico a Gerusalemme e quindi nessuna legittimità storica per la moderna statualità ebraica, oggi Abu Mazen deride l’idea di un qualunque legame ebraico con il Monte del Tempio e giura che la bandiera palestinese sventolerà “su tutte le mura di Gerusalemme”. Mentre si professa contrario alla violenza, ha contribuito a rilanciare la menzogna delle minacce alla moschea di al-Aqsa. Per mesi ha permesso che i suoi fedelissimi di Fatah incoraggiassero gli investimenti deliberati alle fermate d’autobus e altri attacchi terroristici “a difesa” della moschea; ha continuato a sondare possibili alleanze con gli assassini islamisti di Hamas; ha volutamente chiuso gli occhi sulla profanazione di al-Aqsa ad opera di agitatori palestinesi che vi immagazzinavano molotov e ordigni incendiari utilizzandola come postazione paramilitare per violenti scontri con le forze israeliane.

I suoi difensori dicono che ci mancherà quando se ne sarà andato e che il suo successore non potrà che essere più estremista di lui. Ma allo stato attuale delle cose, quello di Abu Mazen sarà un retaggio fallimentare: per il suo e per il nostro popolo. Israele, per quanto gli sia necessario separarsi dai palestinesi al fine di preservare il proprio carattere ebraico, la propria democrazia e la propria anima, in ogni caso non può permettersi di affidare la sua legittima sovranità a una nazione palestinese che non è realmente disposta a convivere a fianco del rinato stato ebraico riconosciuto come radicato in questa terra e pienamente legittimo.

Tredicenne israeliano aggredito e gravemente ferito a colpi di pugnale da un suo coetaneo palestinese lunedì pomeriggio a Pisgat Zeev (Gerusalemme nord)

Tredicenne israeliano aggredito e gravemente ferito a colpi di pugnale da un suo coetaneo palestinese lunedì pomeriggio a Pisgat Zeev (Gerusalemme nord)

Abu Mazen, nel suo sforzo di arrivare all’indipendenza, ha scelto in modo autodistruttivo di ignorare questo sgradevole dato di fatto. Finché i palestinesi non interiorizzeranno il diritto di Israele ad esistere proprio in questa regione, la loro ricerca dell’indipendenza sarà condannata al fallimento.

C’è un aspetto tragicamente surreale in questa particolare eruzione del conflitto. Israele si ritrova immerso in una guerra terroristica a causa della falsa accusa che intenda autorizzare le preghiere ebraiche nel luogo più sacro della tradizione ebraica. Il che solleva piuttosto la questione del perché Israele non permetta le preghiere ebraica nel luogo più sacro del giudaismo che sin dal 1967 ha catturato e liberato dal dominio giordano, suscitando a suo tempo un’ondata di commozione negli ebrei fino a quel giorno implacabilmente banditi dal Muro Occidentale (“del pianto”) e dal Monte del Tempio. La spiegazione? Accadde che, avvalendosi dell’opinione rabbinica che vieta agli ebrei osservanti di mettere piede al centro del Monte del Tempio per timore di profanare il Santo dei Santi, il ministro della difesa israeliano di 48 anni fa, Moshe Dayan, prese la pragmatica decisione di non attuare del tutto la rinnovata sovranità ebraica sul Monte del Tempio, evitando così un possibile scontro religioso con il mondo musulmano. Israele decise anzi di bandire le preghiere ebraiche sulla vasta spianata fra le due moschee e di consentire al Waqf, l’autorità del patrimonio islamico gestita dalla Giordania, di continuare ad amministrare i luoghi santi musulmani. Con tutta evidenza quella generosa rinuncia israeliana venne travisata e interpretata da molti palestinesi come la riprova che lo stato ebraico non aveva un genuino attaccamento verso il sito. Oggi quella rinuncia israeliana viene ricompensata con la violenza.

Cartello del Rabbinato israeliano che avvisa in ebraico e inglese del divieto ai fedeli di accedere all’area dove sorgeva il Tempio ebraico.

Cartello del Rabbinato israeliano che avvisa in ebraico e inglese del divieto ai fedeli di accedere all’area dove sorgeva il Tempio ebraico.

Ma così come Israele deve riconoscere e rispettare l’attaccamento dei musulmani all’Haram al-Sharif (il nome arabo del Monte del Tempio), cosa che ha fatto con la sua politica nel sito sin dal 1967, allo stesso modo anche i musulmani e in particolare i palestinesi dovrebbero riconoscere e rispettare l’attaccamento ebraico al Monte del Tempio. Arafat mancò clamorosamente di farlo. Abu Mazen ha ora davanti a sé quella che potrebbe essere l’ultima possibilità. Non tutti gli darebbero ascolto, ma lui si confermerebbe un personaggio relativamente credibile e moderato. E disinnescare questa tornata del conflitto è interesse dei palestinesi almeno quanto lo è degli israeliani.

Uno stato palestinese potrà esistere solo se e quando gli israeliani potranno iniziare a credere che i palestinesi desiderano sinceramente la coesistenza. La particolarità di questa ondata di violenza e la sua dichiarata causa scatenante dimostrano sanguinosamente agli israeliani esattamente il contrario: li convincono che i palestinesi nutrono un’intolleranza armata di coltelli e persino suicida verso il legame tra lo stato ebraico a il luogo più sacro della pluri-millenaria tradizione ebraica; e che la storica decisione di Moshe Dayan del 1967 non ha fatto altro che rendere più dura la loro intransigenza, anziché incoraggiare la necessità della reciproca comprensione e del compromesso.

(Da: Times of Israel, 11.10.15)