La lezione del boom economico d’Israele

C'è un miracolo economico dietro il panorama di Tel Aviv mentre il Medio Oriente è in piena stagnazione

Da un articolo di Amotz Asa-El

image_1820L’economia israeliana brilla. Gli stessi alberghi, centri commerciali, ristoranti, teatri, agenzie di viaggi, concessionari d’auto ed edifici in costruzione che all’inizio di questo decennio si ergevano tristemente vuoti mentre il terrore correva nelle strade sono ora pieni di clienti, turni e fatturati. I dati emessi la settimana scorsa dal Central Bureau of Statistics indicano che il prodotto interno lordo è aumentato del 6,6%durante la prima metà dell’anno; dal 2002, la disoccupazione è diminuita dal 10,9% al 7,5%; le spese interne per merci durevoli hanno raggiunto il 36%; l’inflazione è rimasta all’1,1%; i tassi d’interesse sono scesi al di sotto del livello della federal Reserve americana; e il valore dello shekel contro il dollaro è aumentato del 20% nell’ultimo decennio.
C’è un miracolo economico dietro il panorama di Tel Aviv sempre più simile a Manhattan, un miracolo che ha trasformato la terra promessa nella terra di latte e denaro, e lo stato ebraico nell’economia a crescita più rapida del mondo industrializzato.
Come è potuto accadere solo cinque anni dopo la peggiore recessione nella storia del paese? E, più strano ancora, come è potuto accadere quando il resto del Medio Oriente è in piena stagnazione?
Le cause del boom sono diverse.
A livello ciclico, mentre il settore mondiale hi-tech si riprendeva dal cosiddetto “Nasdaq Meltdown”, quel settore tecnologico che aveva a lungo dominato le esportazioni israeliane ha cavalcato le onde, trascinandosi dietro gran parte dell’economia.
Sul piano strutturale, le riforme di Netanyahu hanno scosso l’economia: sono state diminuite le tasse, sono state bloccate le assunzioni nel settore pubblico, è stata ridotta un’elaborata rete di sicurezza sociale, i disoccupati sono stati convinti a cercare lavoro, quasi tutti i beni vendibili sono stati venduti, i porti di mare sono stati costretti a competere l’uno con l’altro, l’età del pensionamento è stata alzata e l’industria delle pensioni è stata liberata dal dominio dei sindacati.
Chiaramente, queste riforme sono fattori importanti nella performance economica di Israele, insieme alla riforma del 1985, quando l’iperinflazione fu schiacciata dopo il taglio delle spese della difesa, l’abolizione dei sussidi per gli alimenti, l’imposizione del controllo dei prezzi e l’introduzione della disciplina monetaria.
Eppure, al di là di queste misure, vi sono due circostanze storiche importantissime che, paradossalmente, hanno incrementato il boom israeliano e allo stesso tempo hanno prodotto il fallimento arabo: i minerali e l’immigrazione.
Nei suoi primi anni, il più grande sogno economico di Israele era di trovare un giorno, come i suoi vicini, il petrolio. Invece non ha mai trovato quantità di petrolio commerciali, né di alcuna altra sostanza, oro o argento, piombo o zinco. Anzi, non aveva nemmeno legname o acqua, oltre ad essere disperatamente piccolo e perennemente sotto assedio. Intanto, lo stato appena nato era costretto ad assorbire decine di migliaia di immigranti, molti dei quali non qualificati e quasi tutti molto poveri.
Come è stato autorevolmente dimostrato, la mancanza di risorse naturali si è rivelata per Israele, come per il Giappone, un vantaggio, perché ha costretto la nazione a cercare la ricchezza nel cervello umano invece che nelle risorse naturali. Alla fine, la realtà ha dimostrato che il primo era economicamente più affidabile delle seconde.
Un effetto di questo atteggiamento è stata comprendere che gli immigranti possono costituire un vantaggio anziché un onere. L’attuale prosperità di Israele è stata alimentata anche da un’ondata di immigrazione, la più grande della storia. L’arrivo tra il 1989 e il 2000 di circa un milione di immigranti è stato l’equivalente, in proporzione, dell’arrivo di oltre 50 milioni di nuovi immigrati negli Stati Uniti nell’arco di un decennio. Per sua fortuna Israele, quando ha dovuto affrontare il problema, ha avuto la saggezza di permettere ai mercati di creare lavori, abitazioni e istruzione di cui questa popolazione aveva bisogno, e ha visto così la spettacolare accelerazione della domanda di merci al dettaglio, quella che molti di noi sono abituati a vedere quando visitiamo i nostri affollatissimi centri commerciali in rapida espansione.
Insomma Israele ha dimostrato, senza volerlo, che vi sono modi per prosperare in Medio Oriente, anche senza petrolio. I suoi vicini, nello stesso tempo, hanno dimostrato che ci sono modi di declinare anche possedendo ricchezze minerarie e stabilità sociale, o forse proprio per questo.
In uno studio intitolato “The Challenge of Economic Reform in the Arab World” pubblicato recentemente dal Carnegie Endowment’s Middle East Center, l’economista Sufyan Alissa indicava che il mondo arabo è responsabile solo del 4% del commercio internazionale, ha il minore impiego di forza-lavoro al mondo, e alcuni dei tassi di crescita in maggior declino, in particolare quello dell’Arabia Saudita che è crollato dai 22.634 dollari di Pil pro capite del 1980 ai 12.556 dollari all’inizio di questo decennio. È chiaramente il risultato dell’aver contato troppo su una sola fonte di reddito, i cui prezzi fluttuano storicamente, e che è stata sfruttata secondo modalità che hanno tenuto a debita distanza la maggior parte degli arabi.
Le economie arabe, scrive Alissa, sono dominate o dalle industrie del petrolio, che coprono il 90% di tutte le esportazioni arabe, o dal settore pubblico, la cui quota di forza-lavoro generale è circa tre volte quella in America Latina. Se a questo si aggiungono la dipendenza dagli aiuti stranieri dei paesi arabi non produttori di petrolio, il debito estero e le rimesse dei lavoratori mandati temporaneamente all’estero, si ottengono società sottoproduttive che sono inevitabilmente esposte a capricci dell’economia che non possono né prevedere né influenzare.
Nel frattempo, scrive Alissa, qualunque tentativo di facilitare l’entrata di capitale attraverso la deregulation è ostacolato da una mancanza di “capacità di progettare, applicare e gestire programmi di riforma”. Peggio, “le élites consolidate hanno spesso opposto resistenza alle riforme che danneggerebbero i loro interessi economici o politici”, mentre “loro e i loro privilegi rimangono al sicuro”.
In breve, le economie arabe stanno dove stava Israele fino al 1985, quando anch’esso era in stagnazione pur coltivando una dipendenza dal denaro facile – proveniente non dalle risorse minerarie, ma dagli aiuti esteri – senza fare i conti con i gruppi con interessi acquisiti che si opponevano alle riforme.
A questo bisogna aggiungere il fattore immigrazione. Mentre Israele idealizzava la mobilità sociale accogliendo un’immigrazione povera ma altamente motivata e culturalmente assorbibile, i governi arabi trattavano gli immigranti come pura passività, e la mobilità sociale in generale come una minaccia strategica. Ecco perché gli stati sottopopolati del Golfo rifiutano di ammettere immigranti dai sovrapopolati Egitto e Siria. Ed ecco perché non permettono nemmeno ai loro poveri un’ascesa sociale, preferendo piuttosto assumere personale asiatico per spaccare la legna e raccogliere l’acqua. Ed ecco infine perché il grandioso mondo arabo, nonostante la sua storia famosa e relativamente recente di eccellenza economica, è ora antitetico alla nuova mentalità mercantilistica, alla produttività economica e alla mobilità sociale di India, Cina, Russia e Brasile.
Questo è l’atteggiamento delle élites politiche che Ehud Olmert e George Bush ora individuano come la spina dorsale strategica del conclave di pace in programma per l’autunno. Ne consegue che qualunque cosa le élites arabe filo-occidentali siano pronte a dare in quell’occasione dovrà essere – finché dipende da loro – in linea con il loro programma di conservazione aristocratica e il loro passato di noncuranza sociale.
Se poi il loro arruolamento possa essere fatto in modo vantaggioso anche per gli interessi occidentali a lungo termine in generale, e di Israele in particolare, è naturalmente un altro problema.

(Da: Jerusalem Post, 30.08.07)