La logica di Sharon

Sharon sa bene che le tesi centrali della destra e della sinistra sono vere soltanto a metà.

M. Paganoni per Nes n. 7, anno 16 - settembre 2004

image_382Solo per i risarcimenti alle famiglie israeliane che dovranno sgomberare (circa diecimila persone), costerà un miliardo di dollari il piano per il disimpegno dalla striscia di Gaza e da quattro insediamenti isolati nella Cisgiordania settentrionale. Questa la cifra approvata dal gabinetto di sicurezza israeliano il 14 settembre scorso, insieme a una serie di principi per l’attuazione del piano. Secondo l’agenda del primo ministro Ariel Sharon, il provvedimento dovrà essere approvato dal governo in seduta plenaria entro ottobre, per poi essere trasformato in legge dalla Knesset nella seduta del 3 novembre.
Il piano dunque va avanti, nonostante si faccia sempre più alta la voce degli oppositori. Non si tratta solo delle pacifiche manifestazioni a Gerusalemme, o della catena umana da Gaza alla capitale, né soltanto delle dimissioni di alcuni ministri e dei tentativi di altri di premere il freno. Si tratta anche di slogan e dichiarazioni dai toni talvolta assai minacciosi, al punto da spingere il presidente Moshe Katzav, lo stesso Sharon ed altre importanti personalità a lanciare appelli per scongiurare il rischio che l’acceso dibattito degeneri in un conflitto intestino dagli esiti imprevedibili, ma sicuramente perniciosi. Quando poi un rabbino ultra-estremista di Psagot, tale Yosef Dayan, già membro del Kach, annuncia in televisione d’essere disposto a tenere un rito di pulsa denura per la morte di Sharon (Ha’aretz, 14.09.04), l’ombra tetra dell’assassinio di Rabin si staglia di nuovo sulla scena politica israeliana.
Eppure il piano di disimpegno gode del sostegno della maggioranza degli israeliani, e secondo ogni previsione non dovrebbe essere difficile farlo approvare a governo e parlamento. Ciò che impedisce a Sharon di indire un referendum nazionale (invocato fra gli altri dal suo ministro del tesoro e collega-avversario di partito Benjamin Netanyahu, “per evitare una pericolosa spaccatura nel paese”) non sono certo i sondaggi, che lo danno anzi vincente con il voto favorevole di almeno due terzi degli elettori. Ma in Israele non esiste una legge sull’istituto referendario, e l’iter per vararne una sarebbe incompatibile con i tempi del disimpegno, che Sharon punta a completare entro la fine del 2005.
“Naturalmente – commentava Ha’aretz il 12.09.04 – è chiaro a tutti che un ritiro unilaterale, senza dialogo con un soggetto responsabile dall’altra parte, comporta almeno tanti rischi quanti vantaggi. Ma gli israeliani sono stanchi del perdurare di questa situazione. E Sharon, incoraggiato dal sostegno di gran parte dell’opinione pubblica, peraltro in contrasto con la base interna del suo partito, nelle prossime settimane cercherà di accelerare i passaggi legislativi necessari per realizzare lo sgombero, rimborsando gli sgomberati”.
Quello che non perdonano a Sharon gli avversari del disimpegno, tra i quali molti suoi elettori, è che percepiscono il piano come un vero e proprio tradimento. Un giudizio, tuttavia, che non tiene conto della “lunga marcia” intrapresa dal leader israeliano, che ha sempre parlato di “dolorose concessioni”. Basterebbe ricordare il memorabile scontro che si consumò nel maggio 2002, quando Sharon respinse al mittente una mozione del comitato centrale del Likud contraria a uno “stato palestinese a ovest del Giordano”. La mozione, proposta da Netanyahu in aperta polemica con le posizioni di Sharon, suscitò la dura reazione del primo ministro, allora al governo con i laburisti. “Sono stato eletto primo ministro da due terzi dell’elettorato – aveva esclamato Sharon – e non lascerò che la politica del paese venga dettata da giochetti di partito. Sono responsabile di quello che accade e devo fare una politica che sia conforme alle decisioni che prendo”. Nel dicembre successivo, parlando all’annuale convegno di Herzliya sulla sicurezza nazionale, Sharon aveva ribadito che “le concessioni politiche fatte ai palestinesi in passato e quelle che verranno in futuro sono irreversibili. La situazione attuale, che vede le nostre Forze di Difesa operare all’interno delle città palestinesi, nasce da pure esigenze di sicurezza”.
Prese di posizione che non impedivano ed anzi forse favorivano, nel gennaio successivo, un suo ulteriore, netto successo elettorale. “Sin da quando avviò la sua campagna per scalzare l’allora primo ministro Ehud Barak – commentò in quell’occasione Caroline Glick sul Jerusalem Post (29.1.03) – Sharon ha messo da parte l’eredità di Begin cercando piuttosto di seguire le orme del suo maestro David Ben-Gurion e di trasformare il Likud in una versione moderna del Mapai, lo storico partito socialista di Ben-Gurion che fu alla testa del paese dalla nascita fino al 1977. Fin dall’inizio Sharon si è adoperato per riallineare il Likud, trasformandolo da un partito di destra in un partito di centro”.
Un anno più tardi, di nuovo a Herzliya, Sharon teneva un discorso che ad alcuni osservatori parve non contenere nulla di realmente nuovo. “Anche la dichiarazione secondo cui la riduzione degli attriti tra le due parti richiede la ricollocazione di alcuni insediamenti non è una novità”, scriveva ad esempio Ha’aretz (21.12.03). Di parere diverso il Jerusalem Post, che nell’editoriale dello stesso giorno notava: “Sharon ha indicato quali saranno le conseguenze di un continuo rifiuto da parte palestinese di applicare la Road Map: ha prospettato di smantellare un numero significativo di insediamenti, di cedere unilateralmente più territorio al controllo palestinese e nello stesso tempo di rafforzare il controllo israeliano sul resto. Quello che Sharon propone è di ridisegnare la mappa degli insediamenti, che lui forse più di ogni altro leader israeliano ha contribuito a sviluppare, in modo da far sì che essi aprano la strada a uno stato palestinese, anziché ostacolarla”.
Oggi lo stesso giornale ribadisce che la politica di Sharon, indipendentemente da ciò che ognuno può pensarne, risponde a una logica precisa. “L’intuizione chiave di Sharon – si legge in un editoriale del 9.09.04 – è che, dopo un decennio di polarizzazione, Israele ha bisogno di un nuovo centro politico. Sharon sa bene che la tesi centrale della destra (per cui la separazione sarebbe un suicidio e la pace un pia illusione) è vera solo a metà. E sa altrettanto bene che la tesi centrale della sinistra (per cui la separazione è necessaria e la pace sempre possibile) è sbagliata solo a metà”. In altri termini, “il processo di Oslo è davvero crollato perché non c’è un interlocutore affidabile sul versante palestinese, ma l’assenza di un interlocutore non cancella la necessità di una separazione. Al contrario, tanto più i palestinesi fanno mostra della propria intransigenza, tanto più urgente diventa separarsi”.
Anche perché non esistono reali alternative, aggiunge l’editoriale: il transfer della popolazione palestinese è fuori discussione, né sono ipotizzabili il ritorno a un’occupazione completa stile pre-Oslo o il perdurare della situazione attuale.
Non resta quindi che il disimpegno, per quanto problematico possa essere. E molto dipende da come viene attuato. Il disimpegno infatti può sostituirsi al negoziato, preludere a una riapertura del negoziato, o entrambe le cose. “Se il palestinesi faranno la loro parte – ha dichiarato Sharon – il disimpegno si tradurrà nell’apertura di una porta al processo di pace”. Se invece, par di capire, i palestinesi insisteranno nella loro politica letteralmente suicida, allora Israele disporrà di leve territoriali e insediamenti ben difesi tali da preservare il vantaggio strategico. Si tratta di un approccio che vorrebbe funzionare allo stesso tempo come deterrente e come incentivo verso i palestinesi. E che ha il merito non trascurabile di incontrare il favore (più o meno, o per nulla entusiasta) della larga maggioranza moderata degli israeliani. Ma è pur sempre una rischiosa scommessa.

Per il piano di disimpegno (in inglese), vedi:

http://www.mfa.gov.il/MFA/Peace+Process/Reference+Documents/Revised+Disengagement+Plan+6-June-2004.htm