La lunga guerra interna del settimo giorno

Con il ritiro da Gaza, Sharon porrà fine finalmente alla futile guerra delle utopie fra israeliani.

Di Amotz Asa-El

image_761Il salutare giorno in cui finalmente uscimmo dai rifugi, nel giugno 1967, non fu un giorno normale.
Sopraffatto dalla vittoria, che fu tanto netta quanto inaspettata, e ispirato dal fatto che la calamità – che molti avevamo silenziosamente paventato – aveva improvvisamente lasciato il posto a un riscatto di dimensioni bibliche, l’intero Stato di Israele respirò a pieni polmoni l’aria frizzante di quella domenica mattina di primavera, crogiolandosi in un inebriante mix fatto di solidarietà nazionale, prestigio universale e cruda forza.
Con i danni provocati dall’artiglieria giordana ancora ben visibili sugli edifici e nei cortili attorno a noi, procedevamo alla scoperta di ciò che per diciannove anni ci era stato precluso. Unendoci al corteo colorato e festoso di duecentomila israeliani, giovani e vecchi, ricchi e poveri, religiosi e laici, tutti in delirio, che sciamavano attorno al Monte Sion verso la Città Vecchia di Gerusalemme, in quella festa di Shavuot del 1967 ci parve che la panacea d’ogni male fosse a portata di mano, lì davanti a noi, e che tutte le sofferenze della storia ebraica fossero ormai alle nostre spalle.
In realtà eravamo soltanto all’inizio di un altro arduo cammino destinato a durare decenni, giungendo quasi a stremare lo stato ebraico. Giacché la mattina dopo la fine della guerra dei sei giorni era già iniziata una nuova battaglia, una diatriba interamente ebraica destinata a spaccare in due Israele e gran parte della diaspora, lacerando pensatori, partiti, famiglie e persino singoli individui. Fu la guerra delle utopie ebraiche.
Le scuole di pensiero che si sarebbero fronteggiate in questo confronto – “tutta la terra d’Israele” o grande Israele, da una parte, e “terra in cambio di pace”, dall’altra – non persero tempo nel prendere posizione. Entro l’estate 1967 era già chiaro, per esempio, che i due più acclamati scrittori israeliani, S.Y. Agnon e Amos Oz, erano su fronti opposti del dibattito che avrebbe dominato il discorso pubblico israeliano per la maggior parte dei decenni successivi.
I fautori di “tutta Israele” furono più rapidi a organizzarsi. Nel settembre avevano già pubblicato una petizione sui principali quotidiani del paese: Vi si leggeva: “La Terra d’Israele è ora integralmente nelle mani del popolo ebraico, e così come è proibito perdere lo Stato di Israele, alle stesso modo ci viene comandato di mantenere ciò che ci è stato dato: la Terra d’Israele. Dobbiamo essere leali all’integrità del nostro paese, considerando sia il passato che il futuro della nazione; e nessun governo d’Israele ha il diritto di compromettere tale integrità”.
Oggi un documento come quello non raccoglierebbe la firma di nessuno che sia appena un po’ a sinistra del Moledet di Benny Elon. Ma si era nell’euforico 1967 e la petizione venne entusiasticamente sottoscritta da icone del laburismo come Avraham Tabenkin e Eliezer Livneh, poeti come Haim Guri e Natan Alterman, scrittori come Moshe Shamir, Haim Hazaz e Yehuda Burla.
Il campo opposto, benché messo in difficoltà dal generale senso di onnipotenza che prevaleva allora in Israele e dall’intransigente atteggiamento pan-arabo del tutto-o-nulla, raccolse rapidamente la sua propria schiera di notabili, dal filosofo Yeshayahu Leibowitz al generale Mattityahu Peled. Gli occupanti, avvertiva Amos Oz già nell’agosto di quell’anno, storicamente si ritrovano seduti “su spine e scorpioni finché non vengono rovesciati, per non dire della completa rovina morale che una prolungata occupazione determina nell’occupante”. Le occupazioni, aggiungeva, corrompono anche quando sono scaturite da guerre giuste.
Persino l’ottantunenne David Ben-Gurion si schierò nella guerra delle utopie quando dichiarò, quello steso giugno ’67, che avrebbe preferito dare indietro tutto, tranne Gerusalemme.
I politici attivi ci misero solo poche settimane per schierarsi. Inizialmente, quando tutti ancora si aspettavano che le superpotenze costringessero Israele a ritirarsi come avevano fatto dopo la Campagna del Sinai del 1956, la maggior parte dei partiti pensava in termini di “terra in cambio di pace”. Il 19 giugno il governo, che in quel momento comprendeva anche Menachem Begin e il Partito Nazionale Religioso – affermò ufficialmente la propria disponibilità a ritirarsi su confini internazionali in cambio della pace. Purtroppo i leader del mondo arabo respinsero l’offerta, permettendo così che la guerra fra utopie ebraiche si trascinasse e si infiammasse, fino a coinvolgere quasi tutti noi.
All’inizio, in linea con la dottrina di Yigal Allon, gli insediamenti vennero costruiti per lo più su zone quasi prive di popolazione araba nella valle del Giordano, sulle alture del Golan, nel deserto del Sinai. Alla fine, dopo l’aavvento al potere del Likud nel 1977, ebbe la meglio la dottrina Sharon volta a creare insediamenti praticamente dovunque, in qualunque momento e a qualunque costo: col risultato di generare ciò che egli stesso oggi sta cercando disperatamente di disfare.
La guerra delle utopie, intanto, diventava più acuta giorno dopo giorno.
Da una parte la visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme diede forte impulso alla scuola di pensiero “terra in cambio di pace”, il che spiega come mai Pace Adesso sia nata proprio nel 1977. Dall’altra, la perdita del potere da parte del partito laburista infuse nuova fiducia nella fattibilità degli insediamenti in tutte le terre al di là della Linea Verde.
Ecco come arrivò Israele alla guerra in Libano del 1982, durante la quale la guerra delle utopie iniziò a sfuggire di mano. Benché provocate dal fallito tentativo di Ariel Sharon di ridisegnare il Libano, le manifestazioni di massa che ebbero luogo in quei giorni pro e contro Sharon vertevano in gran parte attorno alle visioni contrapposte sul destino dei territori. Così, ciò che era iniziato con i pamphlet per poi proseguire con controverse costruzioni, ora portava nelle piazze centinaia di migliaia di persone. Lo scoppio di violenze era solo questione di tempo.
L’uccisione l’anno seguente dell’attivista di Pace Adesso Emil Gruenzweig durante una manifestazione politica davanti all’ufficio del primo ministro a Gerusalemme rese chiaro agli occhi di tutti che ciò che nel 1967 aveva generato un senso di euforia, in realtà aveva gettato i semi di una potenziale guerra civile. Nel decennio successivo, coloro che ancora si illudevano che la situazione fosse effettivamente gestibile restarono sconcertati ancora una volta e definitivamente dall’assassinio di Yitzhak Rabin.
Ma la guerra delle utopie rischiava di rovinare lo stato ebraico anche in un altro modo. Essa infatti stremava tutte le energie del sistema politico, dedicate in modo sproporzionato al dibattito territoriale mentre venivano trascurati o evitati del tutto altri fondamentali dibattiti sulle forme dell’economia, sul sistema scolastico, sull’assistenza sanitaria, sulle infrastrutture per lo sviluppo.
Per fortuna a quel punto l’israeliano medio era ormai disilluso da entrambe le scuole di pensiero. A suoi occhi, la guerra in Libano e l’intifada avevano dimostrato che la mentalità da “grande Israele” non era realistica, mentre la disavventura di Oslo aveva mostrato come altrettanto illusoria l’idea della “terra in cambio di pace”. In quel momento, più o meno quando divenne primo ministro, Sharon capì che ripristinare il consenso fra gli israeliani – quel consenso che lui più di altri aveva contribuito a infrangere – era strategicamente più imperativo della “grande Israele”. Non è un caso se proprio allora, nel momento in cui uno dei principali protagonisti della guerra delle utopie finalmente rinunciava a vincerla, per la prima volta dopo decenni il discorso pubblico israeliano cambiava rotta, incentrandosi su questioni interne ben più utili, come le riforme introdotte da Netanyahu e Dovrat.
Tra poche settimane Sharon, quando porrà fine alla presenza israeliana nella striscia di Gaza fissando il nuovo, tacito obiettivo strategico d’Israele – ottenere confini internazionalmente tollerati che comprendano più terra e meno palestinesi possibile – in pratica porrà fine anche alla vana guerra delle utopie fra israeliani. Ed era ora.

(Da: Jerusalem Post, 23.06.05)

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