La mentalità distorta che sta dietro all’accusa: “Israele lo fa solo per farsi bello”
Fin dove può arrivare la paranoia secondo cui qualunque cosa di buono fa Israele è solo una montatura volta a “coprire” la sue presunte malvagità
Di Lahav Harkov
Poche ore dopo la devastante esplosione nel porto di Beirut, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz e il ministro degli esteri Gabi Ashkenazi comunicavano d’aver contattato le organizzazioni internazionali per offrire aiuti umanitari al Libano. Un’ora più tardi, il primo ministro Benjamin Netanyahu annunciava d’aver chiesto al suo consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat di interpellare l’inviato speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, per sapere quali aiuti Israele avrebbe potuto offrire al Libano. Gantz e Netanyahu hanno ripetuto la loro offerta il giorno seguente, e Netanyahu l’ha ribadita dal podio della Knesset.
E’ passato pochissimo tempo e hanno fatto la loro comparsa degli avversari d’Israele, in patria e all’estero, che sostengono che tutto questo non è altro che un teatro messo in piedi per guadagnare punti nelle pubbliche relazioni. Giovedì mattina quelli della tv israeliana Kan Bet hanno chiesto direttamente al ministro Ashkenazi se l’offerta d’aiuto fosse solo una mossa propagandistica. Ashkenazi ha seccamente smentito: “In questa nostra realtà – ha detto – oltre a difendere la nostra sicurezza, dobbiamo offrire aiuti umanitari: non si può restare indifferenti davanti a certe immagini”.
Fra coloro che hanno sollevato l’insinuazione vi sono degli israeliani che fanno sfoggio di cinismo e disillusione rispetto a tutti i politici del paese, o che nutrono ragionevoli dubbi sul fatto che un governo libanese controllato da Hezbollah possa mai accettare l’offerta. Ma le loro voci vanno a rafforzare il tradizionale coro degli anti-israeliani pregiudiziali secondo i quali qualsiasi cosa buona faccia Israele, la fa solo per “coprire” le sue presunte malvagità.
Ma partiamo dai fatti. Israele non ha fatto solo annunci altisonanti. Ha avanzato vere e concrete offerte di aiuto. Il consigliere Ben-Shabbat e altri, sia a titolo pubblico che privato, hanno fatto proposte serie ai rappresentanti delle Nazioni Unite, che le hanno trasmesse ai rappresentanti libanesi. Non c’è stata risposta, e al momento in cui scriviamo non è chiaro se il Libano effettivamente accetterà, in un modo o nell’altro, gli aiuti israeliani. Israele ha offerto attrezzature mediche e si è offerto di curare le vittime in ospedali israeliani. Poiché Israele e Libano sono paesi nemici e difficilmente il Libano accetterà di mandare suoi cittadini oltre confine, Israele si è offerto di curare i cittadini non libanesi feriti nella tragedia. L’Unifil ha dichiarato giovedì mattina che la maggior parte dei caschi blu feriti, che sono del Bangladesh, sono in condizioni stabili e non hanno bisogno d’essere trasferiti in Israele. Ma Israele, uno dei leader mondiali nelle missioni di ricerca e soccorso in caso di catastrofi, avrebbe molto da offrire al Libano in un momento di massimo bisogno. Israele ha inviato missioni di aiuti umanitari un po’ in tutto il mondo, dal terremoto del 1953 nelle isole Ionie della Grecia fino ai feriti della guerra civile siriana curati da personale israeliano nel periodo 2016-2018.

Un bambino siriano, ferito nella guerra civile del suo paese, torna a camminare grazie alle cure ricevute in Israele (foto d’archivio)
Non basta. Vi sono organizzazioni non governative israeliane come IsrAID e Israel Flying Aid che si recano sistematicamente nelle zone di guerra e dei disastri per aiutare le persone che necessitano di assistenza medica, cibo, vestiari e altri beni di prima necessità. C’è Save a Child’s Heart, che porta bambini cardiopatici da tutto il mondo in Israele dove ricevono cure salvavita. L’esperienza israeliana è tale che negli Stati Uniti il notiziario della ABC dedicò un intero segmento agli ospedali da campo allestiti dai reparti medici delle Forze di Difesa israeliane dopo il terremoto di Haiti del 2010. Un’impresa definita “epica” dalla conduttrice Diane Sawyer, mentre l’esperto medico del programma, il dottor Richard Besser, sottolineava come Israele avesse montato le tende durante la notte, giorni prima che la squadra americana arrivasse sull’isola.
Allora come oggi, non mancarono persone pronte a sostenere che qualsiasi azione positiva venga fatta da Israele debba avere per forza un secondo (inconfessabile) fine. E’ lo stesso pregiudizio che sta alla base dell’accusa di “pink-washing” (traducibile come “uso strumentale dei diritti LGBT per nascondere le proprie magagne”): come se il fatto che Israele è generalmente amichevole nei confronti delle persone LGBT sia tutta una montatura volta a “coprire” le sue presunte malefatte nel conflitto con i palestinesi. Un analogo termine coniato più di recente è “mizrahi-washing” (con riferimento agli ebrei mizrahi, cioè di origine medio-orientale): come se Israele avesse accolto nei suoi primi anni 850.000 ebrei in fuga dai paesi del Nord Africa e dal Medio Oriente al solo scopo di guadagnare qualche punto nelle sue pubbliche relazioni nel XXI secolo.
Uno degli aspetti più assurdi di questo modo di ragionare è che nemmeno il più fervente sostenitore di Israele si sogna di affermare che il comportamento d’Israele riguardo ai diritti degli omosessuali o delle minoranze – che in entrambi i casi sarebbe da migliorare – significhi che tutte le politiche del governo israeliano siano perfette e immuni da critiche.
Quel che è ancora peggio, coloro che muovono queste accuse tendono a cancellare le persone coinvolte. Che si tratti degli attivisti LGBT che si battono per la parità di diritti o degli ebrei mizrahi che vogliono affermarsi come parte integrante d’Israele e della sua storia, è indice di disumanizzante disprezzo affermare che le loro intere vite non sono altro che strumenti della propaganda. E nel caso degli aiuti umanitari, questa inquietante mancanza di considerazione e di rispetto colpisce in entrambe le direzioni. Ci sono medici israeliani che attraversano mezzo mendo e poi lavorano giorno e notte per salvare vite umane. E ci sono davvero vittime di disastri, compreso quello di Beirut, che hanno estremo bisogno di aiuto e di cure indipendentemente dalla nazionalità di coloro che li forniscono. Se le squadre di soccorso israeliane dovessero tirare fuori qualcuno dalle macerie di Beirut, è improbabile che quella persona chieda di essere rimessa sotto perché Israele potrebbe guadagnarci in immagine.
Siamo di fronte a un ennesimo esempio del doppio standard, della doppia morale cui sono improntati tanti discorsi anti-israeliani. E’ ben difficile trovare altri paesi che vengano fatti oggetto di calunnie e insinuazioni così delegittimanti per aver fatto un gesto umanitario. Non sarebbe più logico criticare i paesi che non inviano affatto aiuti umanitari (o che non rispettano affatto i diritti delle minoranze) anziché impancarsi a giudicare quell’aiuto e quel rispetto come una sorta di doppio gioco mai abbastanza sincero?
E’ vero, i rappresentanti ufficiali israeliani sottolineano quanto Israele fa di buono e minimizzano quanto fa di sbagliato. Si chiama “diplomazia” e nessun paese al mondo fa il contrario, né ci si aspetta che lo faccia. Non è un perfido complotto sionista. Quello che c’è di perfido sono queste accuse gratuite che vengono regolarmente utilizzate per dare addosso a Israele.
(Da: Jerusalem Post, 6.8.20)
Specialisti israeliani della medicina delle catastrofi con sede presso il maggiore ospedale israeliano, lo Sheba Medical Center, affermano di essere pronti ad aggirare gli ostacoli geopolitici inviando una squadra in un paese europeo vicino al Libano per fornire cure da lì: sono stati fatti i nomi di Grecia, Cipro e Italia come possibili siti per allestire un ospedale d’emergenza o dove i medici israeliani potrebbero essere inviati per affiancare le équipe mediche locali. “Siamo pronti a partire entro poche ore – ha detto giovedì a Times of Israel Elhanan Bar-On, direttore dell’Israel Center for Disaster Medicine and Humanitarian Response, l’organismo che potrebbe allestire il suo “ospedale ad hoc” in un hotel o in qualsiasi altro grande edificio, o semplicemente rafforzare lo staff in un ospedale esistente. Bar-On ha spiegato che questa soluzione “potrebbe consentire ai libanesi di inviare i loro pazienti”, ricordando che la sua organizzazione ha esperienza nella creazione di centri medici all’estero come ha fatto l’anno scorso dopo il Ciclone Idai che ha colpito la seconda città del Mozambico, Beira. “Stiamo cercando di portare aiuto alla popolazione di Beirut – ha concluso Bar-On – Se ci sono cose che interferiscono con gli aiuti, dobbiamo trovare una soluzione concentrandoci sul nostro obiettivo principale”. Sempre giovedì, un gruppo israeliano chiamato SmartAID ha dichiarato che sta pianificando di far arrivare in Libano attraverso il Nord America e l’Australia aiuti medici e umanitari come dispositivi di protezione individuale, respiratori e articoli medici per le vittime di ustioni.
(Da: Times of Israel, 6.8.20)