La nuova strategia di Hamas

Niente di tutto questo ha a che fare con una reale preoccupazione per il futuro del popolo palestinese. La parola "ritorno" dice tutto

Editoriale del Jerusalem Post, Jonathan S. Tobin

I palestinesi che hanno organizzato la cosiddetta “marcia del ritorno” dicevano che le dimostrazioni lungo le recinzioni di confine che separano Israele dalla striscia di Gaza sarebbero state pacifiche, con tanto di eventi culturali e danze popolari e la partecipazione di intere famiglie simbolicamente accampate nelle tende. Ma la realtà delle cose è stata molto diversa. Migliaia di giovani palestinesi, molti dei quali noti terroristi di Hamas e altri gruppi armati, hanno tentato di abbattere la recinzione di confine. Non hanno lanciato solo pietre, ma anche bombe molotov e altri ordigni. Hanno appiccato incendi. Secondo le Forze di Difesa israeliane, alcuni hanno tentato di piazzare esplosivi lungo la recinzione.

Evidentemente Hamas ha cambiato tattica. Con l’avvento del sistema di difesa anti-missilistica “Cupola di ferro”, il lancio di razzi e proiettili di mortaio contro i civili israeliani non è più molto efficace. La tecnologia israeliana che scopre i tunnel per infiltrazioni terroristiche ha iniziato a neutralizzare anche questa minaccia. Ora Hamas si affida a una nuova strategia più semplice: spingere folle di palestinesi – donne, bambini e anziani mescolati a terroristi armati – a lanciarsi verso la barriera che separa da Israele la striscia di Gaza controllata da Hamas, e attendere le inevitabili vittime civili. Hamas sa bene che nessuno stato sovrano può permettere che il suo confine venga invaso da migliaia di bellicosi “profughi”, specie se queste folle verosimilmente non sono altro che la copertura per terroristi pronti a compiere attentati contro gli israeliani. E sanno che Israele verrà invariabilmente condannato per aver ucciso palestinesi “innocenti”.

A quanto pare le violente “marce del ritorno” che hanno avuto luogo in almeno sei punti diversi lungo il confine in coincidenza con la Giornata della Terra palestinese (30 marzo), dovrebbero continuare fino al 15 maggio, data in cui Israele commemora la sua dichiarazione di indipendenza di settant’anni fa, e che i palestinesi chiamano “Giornata della catastrofe”. Ma queste rivolte arrivano in un momento in cui la dirigenza politica di Hamas a Gaza è in crisi.

Un poster con cui Hamas ha pubblicizzato la “marcia del ritorno” del 30 marzo. Nel logo in alto a sinistra, l’immancabile mappa delle rivendicazioni palestinesi: Israele è cancellato dalla carta geografica

L’organizzazione terroristica, che ha strappato violentemente all’Autorità Palestinese il controllo sulla striscia di Gaza nel 2007, due anni dopo il ritiro di Israele, non si è minimamente occupata dei palestinesi che vi abitano. Gli islamisti saliti al potere con lo slogan “l’Islam è la risposta” si sono resi conto dopo un decennio che è impossibile gestire persino una piccola enclave costiera attenendosi a una rigida teologia musulmana che non lascia spazio né ai compromessi né al pragmatismo. Hamas canalizza tutte le sue risorse nella preparazione di un’altra fallimentare guerra con Israele, invece di investire nel miglioramento della vita dei cittadini di Gaza. I risultati dell’intransigenza di Hamas sono tragicamente evidenti: paralizzante penuria di elettricità, acqua corrente disponibile in media un giorno su quattro, sfruttamento incontrollato delle falde acquifere con conseguenti infiltrazioni di acqua salata, tassi di disoccupazione stellari, ricostruzione dopo i conflitti con Israele in stallo. I tentativi di riconciliazione con la dirigenza di Fatah in Cisgiordania non sono andati da nessuna parte perché entrambe le fazioni si preoccupano più di rafforzare se stesse che di migliorare le condizioni della popolazione palestinese. Hamas sperava di poter continuare a controllare militarmente Gaza mentre l’Autorità Palestinese, finanziata da generosi donatori stranieri (per lo più americani ed europei) avrebbe pagato il conto delle bollette e delle spese per la gestione quotidiana di un’enclave autonoma. Il presidente dell’Autorità Palestinese e capo di Fatah Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha reagito bloccando l’afflusso a Gaza di fondi dell’Autorità Palestinese. Intanto nessuno, in Cisgiordania e a Gaza, prende nemmeno in considerazione la possibilità di indire elezioni democratiche. L’ultima volta che si sono tenute (grazie alla collaborazione di Israele) fu nel 2006 e Hamas prese un sacco di voti.

Ora, date le circostanze, Hamas ha deciso che l’opzione più semplice è lanciare una serie di manifestazioni violente contro Israele, con il risultato di distogliere l’attenzione dai clamorosi fallimenti della dirigenza di Hamas e di garantire a Hamas una nuova rilevanza nella “resistenza” palestinese surclassando Fatah. Naturalmente niente di tutto questo ha nulla a che fare con una reale preoccupazione per il futuro del popolo palestinese di Gaza. Hamas sta usando le manifestazioni per delegittimare e scalzare Israele. Non le importa nulla che la sua gente abbia una speranza di futuro migliore. Le va benissimo che vengano uccisi. Meglio se dagli israeliani.

(Da: Jerusalem Post, 2.4.18) 

Se l’obiettivo sono i due stati, perché i palestinesi continuano a parlare di “ritorno?”

Jonathan S. Tobin

Scrive Jonathan S. Tobin: Ai tifosi della “causa palestinese” in servizio permanente piace descrivere le manifestazioni indette per la Giornata della Terra del 30 marzo ai confini fra Gaza e Israele come una marcia per i diritti civili paragonabile a quella negli Stati Uniti guidata da Martin Luther King nel 1963 contro la segregazione razziale. Ma ci sono un paio di problemi per il cui il paragone non regge.

Il primo è che la marcia “non violenta” palestinese è organizzata da Hamas, che è un gruppo terrorista islamista. La violenza, in particolare contro i civili, fa parte della ragion d’essere di Hamas, per cui aspettarsi che qualsiasi azione associata a questo gruppo sia veramente scevra da violenze è un tantino azzardato. L’obiettivo di una qualsiasi marcia diretta verso una frontiera pesantemente armata in cui si verificano frequenti incidenti terroristici non può che essere quello di provocare l’intervento delle Forze di Difesa israeliane per impedire che la recinzione di confine venga forzata, e produrre così nuovi “martiri” tra quei civili che il gruppo terroristico già utilizza ampiamente come scudi umani allo scopo di esacerbare ulteriormente il conflitto, non certo per trovare una soluzione.

C’è poi il punto chiave di queste dimostrazioni, che è il tema: “la marcia del ritorno”. L’enfasi palestinese sul concetto di “ritorno” non è semplicemente uno slogan: serve a ricordare che a settant’anni dalla nascita di Israele i palestinesi sono ancora aggrappati all’idea di eliminare lo stato ebraico. La nozione di “ritorno” è estremamente significativa perché fonda le rivendicazioni dei palestinesi contro Israele non sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania o sull’aspirazione a due stati una volta conseguita l’indipendenza. Piuttosto essa pone fermamente al centro del conflitto la questione se Israele abbia innanzitutto il diritto di esistere. Il ritorno non è semplicemente una parola in codice per indicare l’eliminazione dello stato ebraico. È un preciso impegno dei capi sia di Hamas che della (presumibilmente più moderata) Autorità Palestinese: non sarà fatta nessuna pace che non riconosca il diritto dei (milioni di) discendenti dei profughi del 1948 di tornare alle terre dove stavano i loro progenitori. In altre parole, nessuna pace finché c’è uno stato d’Israele.

“In altre parole, nessuna pace finché c’è uno stato d’Israele”

Per quanto delirante possa essere, il concetto di cancellare gli ultimi sette decenni di storia rimane parte integrante non solo della politica palestinese, ma della stessa identità nazionale palestinese, ed è per questa ragione che “il ritorno” rimane parte imprescindibile del lessico nazionalista palestinese. È vero che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e a volte persino alcuni capi di Hamas hanno flirtato con la nozione di due stati, nell’ambito della quale il nazionalismo palestinese si concentrerebbe su Cisgiordania e Gaza anziché sull’Israele pre-‘67. In una occasione Abu Mazen ha persino riconosciuto che non pensa di tornare a Tzfat (Safed), la città della Galilea da cui proviene la sua famiglia. E Hamas ha detto che è disposta ad accettare un accordo di “tregua” con la costituzione di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. Ma entrambi non hanno mai smesso di parlare del “ritorno” come qualcosa di più di un semplice atto simbolico da inserire in un futuro accordo di pace. Quand’anche si volesse credere, contro ogni evidenza del contrario, che i palestinesi, nonostante i loro ripetuti rifiuti delle offerte di soluzioni a due stati, vogliono davvero una soluzione del genere, è evidente che tengono aperta la questione dei “profughi” per giustificare la ripresa del conflitto dopo che fosse siglato un accordo a due stati. Ma questo messaggio, perfettamente chiaro per il pubblico palestinese, trova sempre orecchie sorde fra coloro che sono determinati a incolpare sempre e solo Israele per la mancanza di pace.

Domandarsi se i capi palestinesi non possono fare la pace per via delle condizioni e delle aspettative dei ”profughi” o se la pace è impedita dallo sforzo continuo dei capi palestinesi di tenere viva nei “profughi” l’illusione del ritorno è un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. Che l’ostacolo maggiore sia la disperazione dei “profughi” (generazioni di arabi deliberatamente confinati nei campi per tenere sempre aperta la guerra contro il sionismo) oppure il modo in cui i loro capi li indottrinano e sfruttano per evitare di fare pace, in fondo cambia poco. La “marcia del ritorno” indetta a Gaza non ha niente a che vedere con i simboli e la non-violenza: si tratta invece del rifiuto di ammettere che la guerra arabo-islamica, vecchia di un secolo, contro l’esistenza dello stato ebraico è stata perduta. Ma finché i palestinesi continueranno ad alimentare la chimera del “ritorno”, non si vedrà all’orizzonte nulla che possa assomigliare a una vera pace. (Da: jns, 29.3.18)