La pace coi i palestinesi non cancellerebbe l’odio pregiudiziale verso lo stato ebraico

Molte campagne contro Israele non hanno nulla a che fare con la soluzione del conflitto palestinese

Di Emily B. Landau

Emily Landau, autrice di questo articolo

Emily Landau, autrice di questo articolo

Quanta parte del crescente sforzo internazionale per delegittimare lo Stato di Israele ha a che fare con il conflitto palestinese? Possiamo aspettarci che la spinta a delegittimare Israele svanirebbe il giorno in cui Israele raggiungesse un accordo di pace con i palestinesi?

Certamente la risposta a questa domanda è irrilevante per quanto riguarda l’urgente necessità per Israele di arrivare a una soluzione del conflitto coi palestinesi. Israele deve adoperarsi per risolvere il conflitto non solo perché è ciò che va fatto da un punto di vista etico, ma anche perché è cruciale per la sua sicurezza. Inoltre, ogni punto che di conseguenza Israele riuscisse a guadagnarsi sul piano dell’opinione pubblica internazionale costituirebbe un prezioso vantaggio che ne accrescerebbe la sicurezza nazionale e ne migliorerebbe la posizione nella comunità internazionale.

In effetti sembra probabile che una soluzione negoziata del conflitto, a differenza di soluzioni imposte o misure unilaterali, toglierebbe vigore alle incessanti iniziative che mirano a delegittimare Israele, riducendo il numero di entusiasti sostenitori e propugnatori del movimento per il boicottaggio e campagne simili.

Ma non bisogna farsi eccessive illusioni: lo zoccolo duro della campagna per la delegittimazione di Israele non si dissolverebbe, né passerebbe a dedicarsi a qualche altra causa politica e umanitaria. Bisogna anzi attendersi una “continuità di scopo” nei detrattori di Israele, per il semplice motivo che gran parte del fervore per la delegittimazione è alimentato da furore anti-Israele più che da sincera preoccupazione per la condizione dei palestinesi.

Le ricorrenti dichiarazioni di intellettuali e politici avversi a Israele che mettono in discussione l’importanza, la necessità e la legittimità di uno stato ebraico non sono che una spia della portata del problema. Per dirla chiaramente, questo tipo di sentimenti non hanno nulla a che fare con una soluzione del conflitto palestinese.

Sul cartello: “Annientare lo stato ebraico”

In questo senso, se anche la questione palestinese venisse risolta, l’impeto per la delegittimazione persisterebbe e quasi certamente si ripresenterebbe con il pretesto di altre problematiche e accuse. Con l’enorme infrastruttura già messa in piedi dotata di comprovata esperienza nell’attività globale, il naturale passo successivo sarebbe quello di convogliare gli sforzi su altri temi e problemi che stanno alla base della sicurezza interna e internazionale di Israele.

Si prenda, ad esempio, la questione nucleare iraniana. Vi è una forte tendenza, nel dibattito globale su questo tema, a punta il dito contro Israele anziché sull’Iran. Questi detrattori preferiscono ignorare le enormi differenze tra Israele (orientato alla difesa, con una solida storia di oltre quarant’anni di assoluta moderazione e responsabilità in campo nucleare) e Iran (che manifestamente vìola suoi precisi impegni, mentendo su questo da decenni, e intanto provoca aggressivamente i suoi vicini e rifiuta esplicitamente il diritto di Israele ad esistere come stato sovrano), e  chiedono come mai venga affrontato l’Iran mentre – a loro dire – sarebbero Israele la “vera” minaccia regionale. Il modello applicato sul fronte nucleare iraniano è simile a quello che alimenta gli attacchi contro Israele sulla questione palestinese: Israele è necessariamente il colpevole e non seccateci con i fatti. Il che indica una posizione meramente anti-israeliana, anziché una sincera preoccupazione per il disarmo nucleare.

Coloro che in questi anni hanno scoperto che non è più politicamente scorretto disseminare luoghi comuni anti-israeliani, e spesso anti-ebraici, troveranno altri obiettivi su cui esercitare la loro scomposta retorica contro Israele. Lo status dei cittadini arabi in Israele, il ricorso di Israele alla forza militare quando la sua popolazione civile viene presa di mira da razzi palestinesi, la natura demilitarizzata del futuro stato palestinese e il suo limitato controllo su spazio aereo e confini: è tutto materiale già pronto allo scopo, e molto altro ne potranno aggiungere o escogitare. Inoltre, come ha dimostrato la guerra della scorsa estate tra Israele e Hamas, con il forte aumento degli incidenti antisemiti in Europa e negli Stati Uniti specificamente connessi all’operazione “Margine protettivo”, l’affermazione che l’anti-israelismo è totalmente avulso dall’antisemitismo non è più sostenibile.

Quindi, di fronte allo sforzo crescente di delegittimare Israele, non ci si può accontentare dell’illusione che una diversa politica israeliana rispetto ai palestinesi cancelli il problema. La retorica e l’ideologia che ispirano il dibattito sul processo di pace non scompariranno da un momento all’altro: il problema è molto più grande, la minaccia è reale e deve essere combattuta. Ciò che occorre è una strategia per affrontare la minaccia dell’”anti-israelismo” che spesso trova radici nell’antisemitismo (cioè nell’odio pregiudiziale verso gli ebrei in quanto tali). Questa strategia non deve mettere in campo l’antisemitismo come spiegazione di ogni critica, né deve addurre l’antisemitismo come un motivo per evitare di lavorare a un accordo di pace (“ci odiano comunque”). D’altra parte, deve prendere abbastanza sul serio l’antisemitismo in quanto elemento formativo all’interno dell’anti-israelismo, da non farsi illusioni circa l’idea che un accordo di pace con i palestinesi possa risolvere il problema.

(Da: Times of Israel, 30.12.14)