La sindrome del “perché (non) io”

È la sindrome dei sopravvissuti: all’Olocausto, alla guerra, al terrorismo

Da un articolo di Liat Collins

image_2217Perché io?” è molto più che una domanda. È una invocazione fondamentale per cercare di comprendere ciò che è spesso incomprensibile. È forse la reazione più naturale al quel genere di trauma che ti costringe a batterti per capire quale forza divina o cosmica ti abbia prescelto. Recentemente sono giunta alla conclusione che Israele soffre di una forma diversa del fenomeno. Chiamiamola “la sindrome del perché-non-io”. È la sindrome dei sopravvissuti: i sopravvissuti all’Olocausto, alla guerra, al terrorismo.
Prima dello scambio con cui Israele ha ricevuto i corpi dei soldati rapiti Eldad Regev e Ehud Goldwasser, ho visto in TV l’intervista a un riservista che all’ultimo momento aveva cambiato turno con uno dei due uomini che – ora lo sappiamo – sarebbero tornati a casa solo due anni e quattro giorni dopo, in una bara. Il riservista confessava i suoi (naturali) sensi di colpa. Ricordo mio fratello che patì qualcosa di simile quando il medico che lo aveva sostituito verso la fine del suo servizio, nella prima guerra in Libano, venne mortalmente ferito durante una missione in cui altri tre membri della sua unità rimasero uccisi.
Soprattutto, ricordo un soldato della mia unità Nahal che era in visita da amici in un kibbutz durante la prima guerra in Libano (nei giorni dell’operazione Pace in Galilea, prima ancora che Hezboullah fosse fondata). “Mickey, ho sentito che un miracolo ti ha salvato!”, qualcuno salutò il soldato appena tornato dal fronte. Mickey, normalmente molto mite, esplose: “Che razza di miracolo sarebbe? Il tizio accanto a me è stato ucciso! Questo non è un miracolo!”. Fu la reazione tipica di qualcuno che combatte con la fase del senso di colpa del lutto. Allora non conoscevo ancora il termine “sindrome da stress post-traumatico”.
Questi ricordi, che forse sarebbe meglio cancellare, sono ritornati il mese scorso con “lo scambio di prigionieri”. Il termine stesso è traumatico, visto che i nostri soldati erano stati presi in ostaggio e Hezbollah certamente non aveva rispettato nessuna delle leggi e convenzioni internazionali concernenti i prigionieri di guerra, mentre i suoi “combattenti prigionieri” erano dei terroristi assassini di bambini. Non c’è nessuno peggiore di Samir Kuntar e della “signora morte” Dalal Mughrabi, responsabile dell’uccisione a sangue freddo di 36 persone nel massacro di 30 anni fa sull’autobus della strada costiera.
Ricordo gli amici che non sono tornati e quel terribile senso di colpa mentre si ascolta una lista di nomi di vittime e si prega in silenzio: “Per favore, fa che non sia…”
C’è anche un altro ricordo. Il fratello del negoziante vicino alla tipografia dei miei genitori, a Karmiel, fu catturato dai siriani nel 1982. Yohanan Alon tornò a casa dalla sua famiglia ad Akko il 28 giugno1984, tra grandi accoglienze e pacche sulle spalle da parte dei politici. Ricordo i suoi occhi, ancora appannati, la trasparenza della sua pelle (in quei due anni non aveva mai visto la luce del giorno), il suo sorriso, con qualche dente in meno. E la canzone “Ani hozer habayta” “Sto tornando a casa, io e la mia chitarra” – una popolarissima versione israeliana de L’Italiano – che sembrava andare avanti all’infinito.
Quando i corpi di Regev e Goldwasser sono stati riportati a casa, l’umore e la musica erano molto diversi. Era una conclusione, ma senza gioia. La radio suonava le canzoni che sono di un genere israeliano unico: il tipo di musica trasmesso nel giorno dei Caduti, nel Giorno della Shoà e quando c’è un grave attentato terroristico.
Fin dall’inizio avevo sospettato che i due soldati fossero morti. Ma, suppongo, avevo anche sperato che si compisse un miracolo (“Che razzo di miracolo?”). Mi è scesa una lacrima alla vista di quelle bare. “La giornata di oggi segna la fine della guerra in Libano,” diceva un incauto commentatore della radio israeliana mentre i corpi entravano in Israele a Rosh Hanikra. La guerra non è finita. Non sarà finita fino a che lo sceicco Hassan Nasrallah non sarà lui stesso in una bara, o perlomeno in lutto.
Nemmeno la prima guerra in Libano è finita. Chiedete ai soldati che l’hanno combattuta. E chiedete alle famiglie dei tre della battaglia di Sultan Yakoub: Zachary Baumel, Zvi Feldman e Yehuda Katz restarono dispersi in quella battaglia nel giugno 1982. Nel corso degli anni le famiglie hanno visto, scambio dopo scambio, il prezzo che saliva e la “merce di scambio” che scendeva. Il primo ministro israeliano Ehud Olmert è stato pazzo, per non dire altro, a dichiarare che lo scopo della guerra contro Hezbollah era quello di riportare a casa Regev e Goldwasser sapendo che erano quasi certamente morti. Ma avviare i negoziati di pace con la Siria senza esigere la restituzione dei “missing in action” di Sultan Yakoub meriterebbe un’altra inchiesta.
Ora c’è il timore che aumentino le pretese dei terroristi per la restituzione di Gilad Schalit, tenuto in ostaggio da Hamas dal giugno 2006, e che aumenti l’incentivo a compiere nuovi attentati. D’altra parte, Hamas potrebbe desiderare talmente tanto emulare la “vittoria” di Hezbollah da finire col prendere sul serio le condizioni per la liberazione di Shalit. Nel frattempo, come ha proposto Yona Baumel, dovremmo avere il coraggio di cambiare le regole del gioco e congelare ogni contatto della Croce Rossa con i detenuti palestinesi in Israele fino a quando non sarà stabilito un contatto con Schalit.
Siamo tutti segnati dal “trauma Ron Arad”, l’aviatore israeliano disperso da quando dovette paracadutarsi sul Libano nel 1986. Poco prima dello scambio, nel quadro delle trattative vennero consegnate a Israele delle foto di Arad e dei suoi appunti personali alla moglie: sono vecchi di almeno 20 anni. Yediot Aharonot, i cui titoli spesso sembrano succinte opinioni di una riga, pubblicò una di quelle foto in prima pagina con le parole: “Guardatelo negli occhi”. L’ho guardato e ho riconosciuto quello sguardo opaco, lo stesso di Alon. La differenza è che Alon l’ho visto casa sua, circondato da amici, cibo e festeggiamenti.
Quando Olmert ha guardato negli occhi Arad, i suoi dilemmi morali sono senza dubbio aumentati. Sarebbe stata dura perfino per re Salomone, figuriamoci per un politico che si dibatte tra accuse di corruzione e crisi di governo. Era una di quelle decisioni in cui si sbaglia in ogni caso. Evidentemente il demonio – nella forma di Nasrallah, Kuntar e altri –ci avrebbe comunque guadagnato più di Israele.
Ma nel profondo, in mezzo a tanta angoscia, sovviene anche il ricordo della nostra forza oltre che della nostra debolezza. Perché, oltre a tutto il resto, questa è una guerra psicologica: gli israeliani ne sono consapevoli, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ne è maestro. Con tutti i suoi difetti, lo scambio ancora una volta ha dimostrato il significato della frase “Kol Yisrael arevim zeh lazeh”, “tutti in Israele sono responsabili gli uni per gli altri”, uno dei fondamenti della vita ebraica.
Abbiamo appena rievocato il periodo delle “tre settimane” tra la data ebraica del 17 Tamuz, in cui venne aperta una breccia nelle mura di Gerusalemme, e il 9 di Av, data della distruzione dei due Templi. Il secondo Tempio, ci dicono, fu distrutto per un odio senza senso. E allora, in questo momento, la profonda preoccupazione per la sorte dei nostri soldati – tutto l’amore che possiamo mostrare a “uno dei nostri ragazzi” – è anche la nostra forza. Hezbollah ha riottenuto i suoi assassini, ma la vittoria morale è nostra.

(Da: Jerusalem Post, 20.07.08)

Nella foto in alto: Liat Collins, autrice di questo articolo