La Siria sta diventando il nuovo Afghanistan

La jihad globale, che alla fine del secolo scorso usava l’Afghanistan come centrale di controllo e addestramento, si è trasferita in Siria. E questa volta gli stati arabi sono preoccupati quanto l’Occidente

Di Ron Ben-Yishai

Ron Ben-Yishai, autore di questo articolo

Ron Ben-Yishai, autore di questo articolo

Gli anni ’80 e ’90 hanno visto venire alla luce il fenomeno dei veterani dell’Afghanistan: jihadisti sparsi in tutto il mondo al servizio del terrorismo islamista a livello mondiale. Rientravano dalla guerra in Afghanistan pervasi da un senso di potenza dopo aver sconfitto l’impero sovietico, e cominciarono a cercare un nuovo sbocco dove impiegare le capacità acquisite. Osama bin Laden e la sua organizzazione al-Qaeda, che proprio allora cominciava ad affermarsi, diede a quei combattenti soldi e direttive per infiltrarsi da est a ovest, dall’Afghanistan verso l’Europa e gli Stati Uniti. Molte moschee in tre continenti, soprattutto in Medio Oriente, divennero centri operativi e di controllo per la missione di imam fanatici.

Oggi i veterani della guerra civile siriana operano secondo la stessa formula e allo stesso modo al servizio di una diffusa jihad globale. Solo che oggi la centrale si trova nell’area in cui l’esercito di Assad sta combattendo i ribelli: dove costoro ricevono addestramento e armi e, dopo alcuni mesi o anni di combattimenti, tornano ai loro paesi intrisi di un senso di potenza e di fervore religioso militante. Uguale è l’ideologia e uguale la teologia. La Siria è l’Afghanistan della prima metà del XXI secolo.

In Europa, come in Israele, esiste da tempo una forte preoccupazione per lo stabilirsi in Siria della jihad islamista globale e per la sua esportazione, anche se si tratta di due fenomeni ancora allo stato embrionale.

L’attentato del 24 maggio scorso al Museo Ebraico di Bruxelles (4 morti)

L’attentato a Bruxelles non è il primo che viene commesso da un terrorista jihadista di ritorno dalla guerra civile siriana, ma per fortuna le autorità francesi, che hanno già dovuto affrontare lo scorso anno un sanguinoso crimine di matrice razzista anti-ebraica, questa volta erano preparate. Evidentemente le autorità francesi hanno attentamente monitorato i giovani di ritorno dalla Siria e, con l’aiuto della tecnologia informatica, sono riuscite a identificare rapidamente l’autore dell’attentato di Bruxelles, a rintracciarlo e a catturarlo. (Come ha scritto Yossi Melman lunedì scorso su Ma’ariv, “la notizia secondo cui Medhi Nemmouche è stato arrestato durante un controllo di routine per traffico di droga tra i passeggeri dell’autobus da Amsterdam è chiaramente una copertura per non svelare le informazioni di intelligence sulle vere circostanze del suo arresto”). Certo, polizia francese e belga sono state aiutate dal fatto che l’assassino di Bruxelles era in possesso di Kalashnikov e pistola, armi che si trovano nelle mani di organizzazioni terroristiche e delle persone che le hanno usate sui campi di battaglia in Medio Oriente, dove la sicurezza negli aeroporti non è molto rigorosa e la gente può muoversi con le armi smontate in valigia. Siria, Libia, Yemen e Iraq sono fonti sicure non solo di attivisti specializzati in battaglia che affluiscono verso l’Europa, ma anche delle armi che essi portano con sé. L’attentato a Bruxelles è un chiaro campanello d’allarme, e la rapidità e il modo con cui l’assassino è stato catturato dimostrano che non era inevitabile, che non è impossibile cercare di individuare questi estremisti prima che portino a termine le loro missioni assassine.

Ricostruzione degli spostamenti degli ultimi due anni del terrorista Medhi Nemmouche

Per al-Qaeda, i regimi arabi sono il bersaglio prioritario, prima dell’Europa. Per questo gli stati arabi si stanno dando molto da fare per sradicare la “minaccia siriana”, e l’Europa potrebbe imparare qualcosa da loro. La maggior parte dei volontari stranieri in Siria, che risultano essere circa 5.000-8.000, provengono da paesi arabi, non dall’Europa o dal Nord America. Alcuni sono entrati nel Fronte Jabhat al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda; altri hanno optato per il Fronte Islamico o per la filiale locale del gruppo qaedista iracheno “Stato islamico della Siria e del Levante”. Altri ancora si sono infiltrati attraverso i confini della Giordania e del Libano per unirsi ai gruppi salafiti. Tra questi volontari vi è anche un certo numero di giovani arabi israeliani originari delle città arabe del nord, nella zona detta del “triangolo”, oltre a un singolo beduino del Negev: in tutto, si stima, non più di una quindicina di persone.

Questi volontari che, come si è detto, hanno acquisito esperienza nell’uso di armi leggere come mitra Kalashnikov, razzi RPG, ordigni esplosivi e persino missili anti-carro e anti-aerei da spalla, non rimangono a lungo in Siria. Dopo aver maturato la necessaria esperienza, tornano a casa dove incarnano una minaccia terroristica sia per i regimi che per i civili. Nei paesi arabi, questa minaccia è stata definitivamente compresa lo scorso anno quando dei veterani del conflitto civile siriano hanno aderito all’organizzazione Ansar Bait al-Maqdis, particolarmente attiva nella penisola del Sinai. Il gruppo opera principalmente contro le autorità egiziane locali, ma si è anche reso responsabile di incursioni in profondità all’interno del territorio egiziano per compiere attacchi contro i militari che hanno preso il potere dopo il rovesciamento al Cairo del regime dei Fratelli Musulmani. Si tratta della stessa organizzazione e degli stessi veterani che ogni tanto sparano razzi dal Sinai su Israele, e che minacciano l’aviazione civile nel Golfo di Aqaba grazie all’esperienza fatta in Siria nell’uso di missili anti-aerei a spalla. Naturalmente, costituiscono una minaccia anche per la Giordania.

In generale è corretto affermare che gli stati arabi sono l’obiettivo primario di questi veterani. Più precisamente, i regimi degli stati arabi che al-Qaeda considera eretici, in particolare Arabia Saudita e stati del Golfo. L’anno scorso vi sono stati attacchi terroristici in Arabia Saudita legati alla decisione della famiglia reale di unirsi alla lotta contro le organizzazioni islamiste estremiste che operano in Siria, organizzazioni che la casata saudita aveva precedentemente foraggiato con armi e finanziamenti (contro Assad, alleato dell’Iran). Recentemente il ministro degli interni saudita ha annunciato la messa fuori legge di queste organizzazioni e ha imposto una serie di restrizioni sia ai giovani che cercano di andare in Siria per combattere, sia a quelli che dalla Siria rientrano in patria. Ora le autorità saudite spediscono questi giovani in carceri, o strutture di “riabilitazione”, dove subiscono un indottrinamento che dovrebbe farli tornare in se stessi. Un analogo spostamento verso il sostegno alla guerra contro gli islamisti che combattono in Siria sta prendendo piede anche in altri paesi del Golfo, come Kuwait, Dubai, Bahrain ecc.

(Da: YnetNews, 3.6.14)