La soluzione a due stati è praticabile? No, risponde chi odia Israele
Quelli che non credono più alla soluzione a due stati sono coloro che probabilmente non l’hanno mai voluta (perché non tollerano che esista uno stato ebraico)
Di Salo Aizenberg
Alla fine di agosto la rivista Foreign Affairs ha pubblicato un sondaggio tra 64 “esperti”, interpellati circa la loro opinione sulla possibilità che una soluzione a due stati per Israele e Palestina sia ancora praticabile. Agli esperti è stato chiesto di scegliere tra cinque possibili risposte (molto d’accordo, d’accordo, neutrale, in disaccordo, molto in disaccordo) rispetto alla seguente affermazione: “La soluzione a due stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile”. Venticinque intervistati si sono detti d’accordo o molto d’accordo, mentre 32 si sono dichiarati in disaccordo o molto in disaccordo. Sette si sono definiti neutrali.
Un attento esame del risultato mostra un chiaro insieme di caratteristiche uniformi che contraddistingue coloro che credono o non credono nella fattibilità della soluzione a due stati. Coloro che sono decisamente anti-israeliani e parlano di Israele nei termini più aggressivamente negativi sono quelli che non credono che i due stati siano praticabili. Coloro che sostengono l’esistenza di Israele come stato ebraico e non vedono Israele come l’unico violatore dei diritti umani sono quelli che considerano praticabile la soluzione a due stati, anche se non è possibile raggiungerla a breve termine. La domanda sulla soluzione a due stati risulta quindi molto più utile come cartina di tornasole per determinare il punto di vista, ostile o a difesa di Israele, dell’esperto intervistato, che non per capire l’effettiva fattibilità della soluzione in questione.

Dalla pagina Facebook di Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen. Coloro che detestano Israele non sono interessati a una soluzione a due stati perché permette l’esistenza di uno stato ebraico
La realtà è che gli esperti anti-israeliani, tutti contrari all’idea che i due stati rimangano praticabili, nelle risposte riflettono le loro speranze e i loro sogni: la fine della sovranità ebraica in Terra Santa (Terra d’Israele/Palestina) a favore di uno stato che sia controllato da una maggioranza arabo-palestinese. Naturalmente, rifiutano l’idea che i due stati siano praticabili dal momento che qualsiasi soluzione che permetta a uno stato ebraico di persistere integro è l’ultimo esito da loro auspicato.
Quasi tutti gli intervistati che ritengono non praticabile una soluzione a due stati sono noti per le loro posizioni anti-israeliane: la maggior parte di loro utilizza alcune o tutte le più consuete e virulente rappresentazioni anti-israeliane come “impresa di insediamento coloniale”, “stato di apartheid”, “pulizia etnica” e “criminale di guerra”, miscelate con dosi variabili di negazione della storia ebraica. Nei loro brevi commenti pubblicati nel sondaggio, incolpano sempre e solo Israele per la mancanza di pace e non riescono nemmeno a concepire l’idea che i palestinesi possano in qualche modo esserne responsabili, poiché ai loro occhi i palestinesi possono essere soltanto le vittime permanenti dell’oppressione. Molti di questi intervistati sono loro stessi palestinesi o sono persone legate da stretti rapporti con leader o accademici palestinesi. Ecco alcuni esempi di esperti intervistati sul versante della “soluzione non praticabile”, che manifestano opinioni condivise dalla maggior parte del gruppo.
Yousef Munayyer è uno scrittore e analista politico palestinese-americano ben noto per le sue virulente opinioni anti-israeliane. Frequente collaboratore della pagina editoriale del New York Times, Munayyer considera Israele uno stato di apartheid e parla regolarmente delle “mire coloniali” di Israele. Paragona i palestinesi ai nativi americani decimati dai coloni europei, rifiuta il carattere autoctono degli ebrei in Terra Santa (Terra d’Israele), afferma che “la soluzione a due stati è morta e l’ha uccisa Israele” senza mai menzionare le offerte di spartizione avanzate dai primi ministri israeliani Ehud Barak ed Ehud Olmert e rifiutate dai palestinesi.
Nadia Abu El-Haj, professoressa di antropologia al Barnard College e alla Columbia University, è nota per il suo libro Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society, in cui sostiene che gli israeliti non vivevano nella terra dove oggi c’è Israele. La premessa del libro è che l’archeologia israeliana è un’ossessione nazionale mediante la quale vengono rivendicati identità e diritti nazionali ebraici e viene “concretizzata la fantasia storica colonial-nazionale” israeliana. Nadia Abu El-Haj ritiene che attraverso la non praticabile soluzione a due stati, Israele potrebbe indirizzarsi “verso una pulizia etnica più radicale del tipo che abbiamo visto nel 1948”.
Ali Jarbawi è professore di scienze politiche alla Birzeit University, in Cisgiordania, ed ex ministro del governo dell’Autorità Palestinese. Ha scritto diversi editoriali sul New York Times in cui accusa Israele di “giudaizzare Gerusalemme”, di trasformare Gaza in una “prigione gigante” e chiede la fine dell’”unica occupazione coloniale rimasta oggi nel mondo”. A suo avviso, la soluzione a due stati non è praticabile “a causa delle azioni israeliane in Cisgiordania e Gerusalemme”. Nessuna colpa o responsabilità viene attribuita ai palestinesi.
Sullo fronte opposto, quasi tutti i trentadue intervistati che ritengono ancora praticabile la soluzione a due stati non considerano Israele uno stato illegittimo nato nel peccato, né uno dei peggiori violatori di diritti umani al mondo. Fra i sostenitori dei “due stati” si contano diversi ex diplomatici e negoziatori di pace americani (come Aaron David Miller, Dennis Ross e Martin Indyk), studiosi israeliani e americani ed ex funzionari israeliani. All’interno di questo gruppo i punti di vista sul conflitto variano ampiamente. Tuttavia, con forse un paio di eccezioni, tutti sostengono Israele come stato ebraico e uno stato arabo palestinese separato.
Martin Indyk offre, a mio parere, la migliore risposta complessiva a sostegno dei due stati: “Non c’è altra soluzione che possa effettivamente risolvere il conflitto. Le altre ‘soluzioni’ non faranno altro che perpetuarlo. Tuttavia, al momento le parti non sono pronte a perseguire la soluzione a due stati. C’è bisogno di un processo di maturazione che generi nuovi leader, una nuova volontà di assumersi dei rischi e rinnovati sforzi per ricostruire la fiducia nelle intenzioni della controparte”. Indyk afferma apertamente che nel dicembre 2000 Ehud Barak aveva accettato i parametri di Clinton per uno stato palestinese, mentre fu il leader palestinese Yasser Arafat a respingere la proposta con la sua mancata risposta. Indyk ricevette nelle sue mani il fax di Barak con la risposta positiva israeliana e fu testimone del rifiuto di Arafat. Indyk respinge il revisionismo di coloro che sostengono che i fatti non si sono svolti come dicono i suoi ricordi personali (corroborati da numerosi resoconti simili), al solo scopo di tentare di assolvere Arafat dalla colpa storica d’aver rifiutato lo stato palestinese.
Una delle poche risposte neutre è assai significativa. Nabil Famhy ha indicato una risposta neutrale alla fattibilità di una soluzione a due stati, spiegando: “Rimane l’unica ‘soluzione pacifica’ praticabile perché garantisce a israeliani e palestinesi l’espressione della loro identità nazionale. Con un approccio diverso e un pacchetto completo e conclusivo rimane possibile, anche se con prospettive in calo. L’opzione dello stato unico e l’opzione giordana, sebbene sempre più probabili, sono ricette per ulteriori conflitti e frustrazioni”.
Nabil Fahmy è stato ambasciatore egiziano negli Stati Uniti all’epoca di Camp David (luglio 2000) e dei parametri e Clinton, e all’inizio di gennaio 2001 si trovava letteralmente nella stessa stanza con Yasser Arafat e il principe saudita Bandar poche ore prima che Arafat incontrasse, come previsto, il presidente Clinton per rispondere ai suoi parametri. Prima dell’incontro, Arafat venne informato da Bandar e dallo stesso Fahmy che i loro governi, così come la Giordania e gli stati del Golfo, sostenevano i parametri proposti da Clinton e l’accettazione da parte di Arafat di quella proposta per uno stato palestinese e la fine del conflitto. Il messaggio era che Arafat avrebbe dovuto accettare il piano. Alla fine Arafat non rispose al presidente Clinton, respingendo di fatto la proposta. E’ logico che Fahmy, più di vent’anni dopo, creda che il piano a due stati non sia morto giacché sottolinea il sostegno del suo paese per quella soluzione e fu testimone oculare del tragico rifiuto da parte di Arafat.
In conclusione, il recente sondaggio di sessantaquattro esperti non ci dice assolutamente nulla sull’effettiva fattibilità di una soluzione a due stati e non fornisce alcuna analisi del motivo per cui finora è fallita. Ma conferma ciò che già sapevamo: coloro che detestano Israele non sono interessati a una soluzione a due stati se permette a uno dei due stati di continuare a essere uno stato ebraico.
(Da: Times of Israel, 31.8.21)