La vera grande impresa del sionismo è ancora incompiuta

Il segreto della sopravvivenza di Israele è che combatte da sempre con le spalle al muro, come disse il generale Giap. Ma il sionismo mira a qualcosa di più e di meglio

Di Benjamin Kerstein

Benjamin Kerstein, autore di questo articolo

La gente spesso è portata a riflettere sullo strano fenomeno della sopravvivenza di Israele. Per oltre 70 anni, pochi milioni di ebrei hanno tenuto testa a un nemico (l’insieme dei paesi arabi e islamici ndr) che è più grande di diversi ordini di grandezza e che esercita un immenso potere militare ed economico. Un fatto senza dubbio altamente improbabile.

Naturalmente c’è chi attribuisce la resilienza di Israele a un intervento divino, altri a oscuri e inverosimili complotti mondiali. Ma esiste una spiegazione molto più terra terra, che venne perfettamente sintetizzata da Golda Meir, quando disse: “Semplicemente, non abbiamo nessun altro posto dove andare”.

Golda Meir non era l’unica a dare questa spiegazione. Si racconta che una volta al generale nord-vietnamita Vo Nguyen Giap venne chiesto da membri dell’Olp come avrebbero potuto cacciare gli ebrei visto che i vietnamiti avevano cacciato i francesi e poi gli americani. Giap rispose: “I francesi potevano tornare in Francia. Gli americani potevano tornare in America. Gli ebrei non hanno un posto dove andare. Non li potrete cacciare”.

Il fenomeno è stato forse meglio descritto dall’antico filosofo e stratega cinese Sun Tzu (VI-V secolo a.e.v.) nel suo capolavoro L’arte della guerra. Sun Tzu illustra il concetto che lui chiama “terreno disperato” o “fatale”, definendolo come “il terreno su cui ci si può salvare dalla distruzione solo combattendo senza esitazioni”. “Quando sono in condizioni disperate – spiega Sun Tzu – i soldati perdono il senso della paura. Se non c’è alcun luogo dove fuggire, resistono ad oltranza. Se sono in un territorio ostile, fanno fronte in modo compatto. Se non c’è nessun aiuto, si battono con estrema tenacia”. Si potrebbe definire la “posizione spalle al muro”.

Se Sun Tzu, Golda Meir e il generale Giap hanno ragione, allora il segreto della sopravvivenza di Israele non è affatto un segreto. Israele è sempre stato su un “terreno spalle al muro”, senza alternative. Per questo combatte duramente, e finora se l’è cavata.

6 ottobre 1973, Yom Kippur: Israele si è sempre battuto con le spalle al muro

Certo, Israele non è l’unico ad essere sopravvissuto perché si è trovato su un “terreno spalle al muro”. I russi nella seconda guerra mondiale, i curdi nella lotta contro lo Stato Islamico, lo stesso Bashar Assad nella guerra civile siriana ancora in corso, e tanti altri come loro sono sopravvissuti perché non avevano alcuna via di fuga e potevano salvarsi dalla distruzione solo combattendo ad oltranza.

Ma qui viene alla luce per Israele un aspetto problematico e dolorosamente paradossale: giacché, per molti versi, gli ebrei sono sempre stati su un “terreno disperato”. Il popolo ebraico è l’estremo sopravvissuto di un mondo antico i cui grandi popoli e potenze sono praticamente tutti passati alla storia. Di regola, gli ebrei avrebbero dovuto seguire la stessa sorte e ci sono state molte occasioni in cui avrebbe potuto accadere. La risposta ultima degli ebrei alla loro posizione disperata fu il sionismo, che cercava di fornire al popolo ebraico gli strumenti per opporsi non solo grazie alla sua incredibile capacità di accanita resistenza, ma anche meditante l’esercizio della forza fisica, se necessario. Questo, si sperava, avrebbe garantito la sopravvivenza ebraica in un mondo che, a causa degli orrori resi possibili dalla tecnologia dell’età moderna, era forse più pericoloso di quanto fosse mai stato prima.

Il paradosso, tuttavia, è che il sionismo voleva anche più di questo: mirava a portare gli ebrei fuori dal “terreno disperato”, non più con le spalle al muro. In effetti, lo stesso Theodor Herzl credeva che la normalizzazione politica del popolo ebraico fornita dalla sovranità statale avrebbe posto fine alla minaccia dell’antisemitismo e, con essa, alle sofferenze apparentemente perpetue degli ebrei.

Sfortunatamente finora questo non è avvenuto. Il sionismo, e lo stato che il sionismo ha costruito, sono sopravvissuti e hanno persino prosperato sul “terreno spalle al muro”, ma il sionismo deve ancora conseguire il suo obiettivo finale. Finora, gli strumenti con cui gli ebrei sopravvivono rimangono gli stessi: battersi senza esitazioni, perché non c’è nessuna vera alternativa.

Ciò significa che la grande impresa del sionismo non è ancora completa. Ci sono segnali, come gli Accordi di Abramo, che il completamento potrebbe prima o poi arrivare. Ma al momento Israele, e per molti aspetti tutto il popolo ebraico, si trovano ancora a resistere su un “terreno spalle al muro”.

Può darsi che questo sia il destino storico del popolo ebraico. Ma è cosa che non si può mai sapere con certezza. E forse il nostro compito, in questa generazione, è considerare la posizione “disperata” non come un destino ineluttabile, ma come un’esortazione ad agire. Sta a noi fare almeno il tentativo di completare il compito del sionismo e creare una cosa che gli ebrei non hanno mai conosciuto: la possibilità di sopravvivere grazie a qualcosa che non sia la disperata mancanza di alternative. Forse non toccherà a noi completare l’impresa, ma certamente non siamo esentati dal tentare.

(Da: ins.org, 3.10.22)