La (vera) intervista di Weisglass

Per Weisglass e per Sharon la mancanza di dialogo politico non è un obiettivo, bensì una constatazione: una realtà con cui fare i conti

M. Paganoni per Nes n. 8, anno 16 - ottobre 2004

image_403Di una lunga intervista a Dov Weisglass, consigliere del primo ministro israeliano Ariel Sharon, il quotidiano Ha’aretz ha pubblicato mercoledì 6 ottobre alcune anticipazioni. Non senza qualche malizia. “Il significato del piano di disimpegno – vi si leggeva – è quello di congelare il processo diplomatico: congelandolo, si previene la nascita di uno stato palestinese e la discussione su profughi, confini e Gerusalemme. E l’intero pacchetto noto come ‘stato palestinese’ viene rimosso dall’agenda quotidiana per un periodo di tempo indefinito”.
Ed era subito polemica. Non solo la sinistra israeliana, ma la stessa amministrazione statunitense chiedeva al governo di Gerusalemme immediate spiegazioni, ravvisando in quelle parole la volontà di affossare il processo negoziale. Tanto che lo stesso Sharon si affrettava a diffondere un comunicato per ribadire che “Israele resta impegnato ad attuare la Road Map”. Ma le anticipazioni di Ha’artez avevano già fatto il giro del mondo, scatenando l’accusa al governo Sharon d’aver finalmente “svelato le sue vere intenzioni”, mentre il primo ministro palestinese Abu Ala non perdeva l’occasione per dirsi “scioccato dalla scoperta che l’obiettivo del piano di disimpegno israeliano è quello di congelare il piano di pace”.
Due giorni dopo, venerdì 8 ottobre, Ha’aretz pubblicava il testo integrale dell’intervista. Si potevano così leggere nella loro interezza le affermazioni di Weisglass: senz’altro colorite, forse per compiacere l’ala destra del suo schieramento, ma assai diverse da quelle che emergevaano dai ritagli di Ha’artez.
Il ragionamento di Weisglass partiva da una considerazione di fondo, ribadita con forza: attualmente non esiste un interlocutore palestinese affidabile. “Siamo arrivati a questa conclusione dopo aver pensato diversamente per anni – diceva Weisglass – e dopo anni di tentativi di dialogo. Ma quando Arafat fece cadere Abu Mazen alla fine dell’estate 2003, capimmo che non c’era nessuno con cui negoziare. Di qui il piano di disimpegno, perché se devi giocare un solitario, non puoi fare altro che darti le carte da solo”. Secondo Weisglass, Sharon da vero realista non ha mai pensato che si potesse risolvere con un unico documento diplomatico un conflitto vecchio di cento anni. “Tuttavia – aggiungeva – quando divenne primo ministro, pensava ancora di poter arrivare a un accordo a lungo termine per 25 o 20 o 15 anni. Ma presto scoprimmo che andavamo a sbattere contro un muro”.
“Sharon – spiegava ancora Weisglass – ha capito che il terrorismo palestinese è solo in parte nazionalista, ma in parte è religioso. Dunque, accordare riconoscimenti sul piano nazionale non risolverà il problema di questo terrorismo. Questa è la base dell’approccio secondo cui prima di tutto bisogna sradicare il terrorismo, e solo poi avanzare sul piano nazionale”.
Circa la Road Map, Weisglass affermava che Sharon avrebbe preferito un calendario più esteso, ma che in ogni caso aveva ritenuto importante sottoscriverne il principio di fondo: “Ciò che conta, in quella formula, è che afferma che lo sradicamento del terrorismo precede e condiziona il processo politico”.
Qui nasce l’idea del ritiro unilaterale, spiegava Weisglass. “Nell’autunno 2003 capimmo che tutto era bloccato. E sebbene la colpa fosse dei palestinesi e non nostra, Sharon capì che quello stato di cose non poteva durare. Il tempo non lavorava a nostro favore”. Il principio della priorità della lotta al terrorismo poteva erodersi nel giro di pochi mesi: “Con la fine di quel principio, Israele si sarebbe ritrovato a negoziare con i terroristi, e ne sarebbe risultato uno stato palestinese terrorista”.
Solo a questo punto del ragionamento Weisglass giungeva ad affermare che “il significato del piano di disimpegno è un congelamento del processo diplomatico”. Aggiungendo che il disimpegno “costringe i palestinesi nella posizione, che essi odiano, di dimostrare la loro serietà: non ci saranno più scuse, non ci saranno più soldati israeliani da incolpare di tutto, e il mondo guarderà a cosa faranno loro, non noi. Tutto il mondo vuole vedere cosa faranno di quel pezzo di territorio”.
Dunque, per Weisglass e per Sharon la mancanza di dialogo politico (da cui nasce il disimpegno unilaterale) non è un obiettivo, bensì una constatazione: una realtà con cui fare i conti. L’impraticabilità, per il futuro prevedibile, di un serio dialogo politico determina la necessità di rinviare i negoziati per lo stato palestinese. “Altrimenti – come ha spiegato lo stesso Weisglass in una successiva dichiarazione (Jerusalem Post, 8.10.04) – allo stato attuale delle cose, con un’Autorità Palestinese incapace e il terrorismo che imperversa, nascerebbe uno stato palestinese sprofondato nell’anarchia”.
Si può concordare o meno con questa posizione, ma bisogna prendere atto che di questo si tratta, e non di ciò che le anticipazioni di Ha’artez avevano fatto intendere. Tutto sommato da un giornale israeliano, ancorché schierato contro il governo, ci si poteva aspettare uno standard di correttezza un po’ più elevato.

Nella foto in alto: Dov Weisglass