La verità che deve essere insegnata sul 1948

Il dolore dell’altro va capito e rispettato, ma la verità dei fatti non può essere alterata.

Di Shlomo Avineri

image_3162Il primo settembre 1939 la Germania nazista invase la Polonia. Questa è la verità, non una “versione” dei fatti. Il 7 dicembre 1941 aerei giapponesi attaccarono e distrussero la flotta americana del Pacifico a Pearl Harbor. Questa è la verità, non una “versione” dei fatti.
Naturalmente esistono anche disparate versioni. Ad esempio, i tedeschi avevano alcune rimostranze contro la Polonia. Innanzitutto, che nel Trattato di Versailles del 1919 le potenze occidentali vittoriose avevano spogliato la Germania di territori con una grande popolazione di etnia tedesca, annettendoli alla Polonia (il “corridoio polacco”) e dichiarando città internazionale Danzica: una città che era tedesca da generazioni. E poi la Germania nazista accusava il governo polacco di discriminazioni ai danni dell’etnia tedesca sotto la sua giurisdizione. Le contestazioni della versione tedesca non erano tutte infondate, ma la verità dei fatti è chiara: il primo settembre 1939 fu la Germania ad attaccare la Polonia, non la Polonia ad attaccare la Germania.
Esiste anche una versione giapponese: gli Stati Uniti, insieme a Gran Bretagna e Olanda, avevano imposto un embargo sull’esportazione di ferro, acciaio e petrolio al Giappone dopo l’invasione giapponese della Cina. Il Giappone aveva proposto di negoziare su questi temi, ma gli Stati Uniti avevano rifiutato e il Giappone considerava l’embargo un atto d’aggressione che minacciava di paralizzare la sua economia. Si trattava di contestazioni di un certo peso e non si può ignorare il fatto che l’atteggiamento di America e Gran Bretagna racchiudeva un tocco di razzismo bianco contro la nascente potenza “gialla” nell’est asiatico. Ma la verità è che il 7 dicembre 1941 fu il Giappone ad attaccare gli Stati Uniti e non gli Stati Uniti ad attaccare il Giappone.
Perché tutto questo è importante? Nei recenti dibattiti sulla “Nakba” palestinese, è stato affermato che esistono due “versioni”, una israeliana e una palestinese, e che si dovrebbe prestare attenzione ad entrambe. Il che naturalmente è vero: accanto alle rivendicazioni israelo-sioniste circa il legame del popolo ebraico con la sua patria storica e la misera condizione in cui versavano gli ebrei, vi sono asserzioni palestinesi circa gli ebrei visti come un gruppo esclusivamente religioso e il sionismo come un movimento imperialista. Ma al di sopra e al di là di queste affermazioni resta il fatto – un fatto, non una “versione” dei fatti – che nel 1947 il movimento sionista accettò il piano di spartizione delle Nazioni Unite mentre la parte araba lo rifiutò e scese in guerra contro di esso. Decidere di entrare in guerra comporta delle conseguenze, esattamente come nel 1939 e nel 1941.
L’importanza del concetto appare chiara leggendo con attenzione l’editoriale che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha recentemente pubblicato sul New York Times. Nel suo articolo Abu Mazen cita la decisione di spartire il paese, ma non dice una sola parola sui fatti: chi la accettò e chi la rifiutò. Si limita a scrivere che “poco dopo le forze sioniste espulsero gli arabi palestinesi”: come quei tedeschi che parlano degli orrori dell’espulsione di 12 milioni di persone di etnia tedesca dall’Europa orientale dopo il 1945 senza citare l’attacco nazista alla Polonia; o i giapponesi che parlano di Hiroshima senza citare il loro attacco a Pearl Harbor. Questa non è una “versione” dei fatti: è semplicemente tacere la verità. Gli effetti non possono essere disgiunti dalle cause.
Il dolore dell’altro deve essere capito e rispettato, e i tentativi di impedire ai palestinesi di parlare di Nakba sono stupidi e immorali: nessuno impedisce ai discendenti dei profughi tedeschi dall’Europa orientale di sentirsi partecipi delle loro sofferenze. Ma come nessuno, nemmeno nelle scuole tedesche, si sognerebbe di insegnare una “versione” tedesca della seconda guerra mondiale, così anche la guerra del 1948 non deve essere insegnata come un conflitto fra opposte “versioni”. In fin dei conti esiste una verità storica. E, pur senza ignorare le sofferenze dell’altro, è in questo modo che temi così delicati devono essere insegnati.

(Da: Ha’aretz, 17.6.11)

Nell’immagine in alto: ribadendo il loro rifiuto della spartizione all’origine del conflitto arabo-israeliano, tutta la pubblicistica palestinese identifica la “Nakba” (catastrofe) con la nascita stessa dello stato di Israele, e la cancellazione di Israele come unica “giusta soluzione”