L’accordo del secolo (scorso)

Molto probabilmente l’accordo che proporrà Trump andrà ad aggiungersi alla lunga lista dei piani di pace finiti in niente. Ma Israele dovrà cercare di sfruttarne la dinamica per rafforzare le relazioni con il mondo arabo

Di Eyal Zisser

Eyal Zisser, autore di questo articolo

A fine febbraio sembrava a portata di mano un Nobel per la pace. L’unica cosa che mancava era un piccolo passo del dittatore nordcoreano Kim Jong Un, dopo di che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe potuto porre fine al conflitto di 60 anni nella penisola coreana. Al momento della verità, tuttavia, il giovane leader della Corea del Nord si è rifiutato di ripetere l’errore commesso dal tiranno libico Muammar Gheddafi che, sotto le pressioni occidentali, rinunciò al suo programma nucleare in cambio di promesse occidentali che si sono rivelate vane al momento in cui scoppiò la rivoluzione in Libia.

L’insuccesso nella penisola coreana non si può estendere automaticamente al Medio Oriente, dove le cose sono più complesse e opache. Eppure anche in questa regione vanno crescendo le aspettative attorno al cosiddetto “accordo del secolo” che l’amministrazione Trump si appresta a svelare, come se la proposta di pace americana possa davvero risolvere un conflitto che dura da più di un secolo.

La storia ci insegna che le proposte di compromesso elaborate da mediatori stranieri non hanno successo nell’arena israelo-palestinese. Anche i tentativi della comunità internazionale di imporre un accordo sono falliti, a cominciare dal piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 che non era altro che un vano tentativo di prescrivere alle parti una soluzione preconfezionata. Viceversa, tutti i successi diplomatici, e persino gli accordi di pace (quando ci sono stati), sono stati raggiunti soltanto quando le parti in conflitto si sono sedute a negoziare tra loro un compromesso. Così è stato per il trattato di pace israelo-egiziano e per l’accordo di pace tra Israele e Giordania.

Il presidente Usa Donald Trump (a sinistra) e il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, a Ramallah nel maggio 2017

L’assunto di base al centro della proposta americana è che sia possibile far accettare ai palestinesi un accordo di pace che pure non soddisfa tutte le loro aspettative e rivendicazioni. È un’ipotesi errata, che non reggerà alla prova dei fatti. E’ vero che i paesi arabi faranno tutto quanto in loro potere per sostenere un accordo tra Israele e palestinesi, perché ormai considerano tale accordo un loro interesse vitale. I governanti arabi eserciteranno forti pressioni sui palestinesi, ma non oseranno fare concessioni per conto loro o a loro nome perché non vogliono vedersi attribuiti questi cedimenti negli annali della storia. Quindi i palestinesi avranno sempre l’ultima parola, e i palestinesi o non possono o non vogliono prendere la decisione storica di porre fine al conflitto.

Innanzitutto, i capi palestinesi hanno sempre pensato che il tempo gioca a loro favore, e che dunque rinviando la proposta Trump si vedranno offrire un accordo migliore, vuoi dal successore di Trump, vuoi dalla comunità internazionale o dalla Russia o dall’Unione Europea, tutti soggetti che hanno apertamente esortato i palestinesi a eludere la proposta di Trump.

In secondo luogo, il senso di disperazione della piazza palestinese non basta a spingere la dirigenza verso un accordo. Gli americani, come i governanti arabi, non hanno le carte giuste per spingere all’accordo il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen e i suoi sodali, i quali preferiscono di gran lunga un’Autorità Palestinese balbettante e traballante a Ramallah rispetto a uno staterello che non soddisferebbe le loro rivendicazioni minime. È interessante notare, tra l’altro, che la nozione di un semi-stato palestinese non entusiasma minimamente i giovani palestinesi, molti dei quali vedono piuttosto la soluzione dello “stato unico” – vale a dire, ricevere la cittadinanza israeliana – come l’unica soluzione in grado di soddisfare i loro bisogni e promuovere gli interessi palestinesi, per lo meno a lungo termine.

Infine, la debolezza della dirigenza palestinese e le spaccature all’interno dei suoi ranghi certamente non favoriscono le decisioni coraggiose, per non parlare delle concessioni.

Ecco perché molto probabilmente l’accordo del secolo dell’amministrazione Usa andrà ad aggiungersi alla lunga lista dei piani di pace finiti in niente. Dopo di che, quando le acque si saranno calmate, Israele dovrà comunque cercare di sfruttare la dinamica innescata dal piano americano per rafforzare le sue relazioni con il mondo arabo. Ad ogni modo, l’agognata pace non è ancora dietro l’angolo.

(Da: Israel HaYom, 4.3.19)