L’accordo Israele-Sudan è un duro colpo per Iran e gruppi terroristi

A differenza di Emirati e Bahrein, l'accordo con Khartoum ha poco da offrire sul piano economico, ma è molto importante sul piano politico, diplomatico e della sicurezza

Di Yoav Limor

Yoav Limor, autore di questo articolo

Il frutto principale dell’annunciato accordo di normalizzazione tra Israele e Sudan non è tanto sul piano bilaterale, quanto su quello regionale: un altro paese va ad aggiungersi alla cerchia di quelli che hanno abbandonato il conflitto e hanno smesso di servire da focolaio di attività politiche e di sicurezza anti-israeliane.

A differenza degli accordi di pace con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, quello con il Sudan ha poco da offrire dal punto di vista economico. Il Sudan (un paese che ha avviato da poco un fragilissimo processo di democratizzazione ndr) non ha nulla da esportare in Israele e, date le condizioni in cui versano le finanze di Khartoum, c’è da dubitare che possa importare molti dei beni relativamente costosi che Israele ha da offrire. E’ senz’altro vero che vi sono all’orizzonte alcuni accordi commerciali riguardanti principalmente tecnologie israeliane nei settori dell’acqua, dell’agricoltura e del cibo, che contribuiranno a portare il Sudan nel XXI secolo. Ma è probabile che il commercio complessivo tra i due paesi rimarrà su piccola scala.

L’accordo con il Sudan, tuttavia, offre a Israele tre vantaggi, tutti altrettanto importanti. Innanzitutto, sul piano diplomatico significa che un altro paese precedentemente ostile a Israele ora lo riconosce e intende stabilire con esso rapporti diplomatici e commerciali. L’importanza di questo primo aspetto va oltre il piano delle semplici dichiarazioni: significa che vi sarà un paese in meno che voterà automaticamente contro Israele nelle organizzazioni e nei forum internazionali, un paese in meno che si aggregherà agli sforzi per imporre boicottaggi o sanzioni allo stato ebraico.

Ottobre 2012: l’esplosione di una fabbrica e magazzino di armi nel complesso Yarmouk, alle porte di Khartoum, attribuita a un’operazione israeliana contro traffici di armi destinate a terroristi

In secondo luogo, da un punto di vista arabo-musulmano l’accordo significa che è stata aperta un’altra crepa nel muro dell’ostilità con cui Israele deve fare i conti da sempre nel mondo arabo-musulmano. Il Sudan, il paese dove la Lega Araba nel 1967 approvò la famigerata politica dei “tre no” (no al riconoscimento di Israele, no al negoziato con Israele, no alla pace con Israele), è diventato ora il quinto paese arabo a riconoscere Israele, e così facendo ha ulteriormente incrinato l’idea che qualsiasi progresso tra mondo arabo e Israele debba essere inestricabilmente legato alla questione palestinese.

Da ultimo, ma certamente non meno importante, c’è il tema della sicurezza. Non per niente il Sudan era stato incluso dagli Stati Uniti nell’elenco degli stati sponsor del terrorismo: esistono parecchi gruppi terroristici che considerano il Sudan la loro casa, e Khartoum mantiene stretti legami con l’Iran. Navi iraniane attraccavano regolarmente a Port Sudan sulla rotta per recapitare a Hezbollah in Libano e Hamas e Jihad Islamica nella striscia di Gaza praticamente qualsiasi cosa, da razzi e mortai a missili anticarro, esplosivi e armi. Stando alle notizie di stampa, in diverse occasioni Israele ha dovuto agire per contrastare questi traffici, principalmente eliminando le consegne via mare. Queste operazioni avevano significativamente ridotto le dimensioni del terrorismo proveniente dal Sudan, ma ora il nuovo accordo potrebbe permettere di rafforzare ulteriormente il controllo sulle attività terroristiche su suolo sudanese.

Il che rappresenta un duro colpo per le organizzazioni terroristiche e in particolare per il loro principale protettore, l’Iran, che è senza dubbio preoccupato per il crescente numero di rotte che vengono bloccate, nonché per il numero crescente di paesi musulmani che stanno optando per la scelta di perseguire la pace con Israele. Senza dubbio Teheran cercherà di ritagliarsi nuove rotte per continuare ad aiutare i suoi gregari in Libano e Gaza, e gli ayatollah faranno sicuramente tutto ciò che possono per fare pressione sui dirigenti arabi affinché non seguano le orme di Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan. Dietro le quinte è in corso una battaglia diplomatica per il Qatar: Stati Uniti e Israele stanno cercando di mediare un riavvicinamento tra Qatar e Arabia Saudita nel tentativo di allontanare Doha dall’asse islamista estremista guidato dalla Turchia. Se questi sforzi si dimostreranno efficaci, gli stati estremisti diventeranno più isolati che mai, e in Medio Oriente sarà molto più chiara la divisione fra “pragmatici” ed “estremisti”.

(Da: Israel HaYom, 25.10.20)