L’ampio consenso dell’elettorato israeliano su difesa e diplomazia

La coesione nazionale rimane un ingrediente cruciale per affrontare con successo le gravi sfide alla sicurezza con cui Israele deve sempre fare i conti

Di Efraim Inbar

Efraim Inbar, autore di questo articolo

La recente campagna elettorale israeliana è stata accesa e combattuta, essenzialmente trasformata in un referendum sull’opportunità o meno che Benjamin Netanyahu continuasse a essere il primo ministro. La sua personalità e i suoi problemi con la giustizia, non le sue scelte politiche, sono state al centro degli attacchi dell’opposizione.

Ma di fatto, al di là delle dure polemiche, si può discernere in Israele un ampio consenso per le politiche diplomatiche e di difesa del governo uscente. Durante la campagna elettorale, sia il Likud che la formazione rivale Blu&Bianco hanno quasi completamente ignorato la questione palestinese. E quando via hanno fatto riferimento, i generali di Blu&Bianco (Benny Gantz, Moshe Ya’alon e Gabi Ashkenazi) hanno sempre cercato di dimostrare che non erano assimilabili a posizioni “pacifiste di sinistra” e che non prendevano in considerazione nessun ritiro puro e semplice dalla Cisgiordania. Anche il partito laburista, tuttora identificato nella mente di molti israeliani con il fallito processo di Oslo, ha in gran parte eluso la questione. Solo il Meretz, estrema sinistra sionista, lamentava la mancanza di attenzione ai piani di pace (e ha perso voti e seggi).

Nemmeno il tanto atteso lancio, nelle prossime settimane, del cosiddetto “accordo del secolo” da parte della squadra del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha generato un vero dibattito durante la campagna elettorale. Gli elettori israeliani (come quasi tutti gli altri, del resto) non conoscono i contorni del piano di Trump. Ma tutti sanno per certo quale sarà la risposta palestinese: un rifiuto netto, come è avvenuto con tutte le precedenti proposte di pace.

Missili in una parata militare iraniana, con la consueta scritta “Morte a Israele”

In effetti, gli israeliani non si fanno più illusioni sull’Autorità Palestinese e sono tutti più o meno d’accordo con la politica praticata da Netanyahu e sostenuta dall’establishment della difesa: “gestione del conflitto”. Un approccio che cerca di limitare al massimo le sofferenze su entrambi i versanti dell’attuale situazione, utilizzando “carote e bastoni” ed evitando mosse azzardate portatrici solo di minacce e pericoli.

Molto è stato riportato dai mass-media israeliani circa la frustrazione della gente nel sud del paese per quella che viene percepita come l’inazione di Netanyahu rispetto a Hamas. Eppure il suo partito, il Likud, ha vinto in modo netto anche nelle città delle zone che subiscono i continui attacchi da Gaza. Né i leader di Blu&Bianco sono stati in grado di proporre politiche, su come gestire la striscia di Gaza governata da Hamas, che fossero distintamente alternative a quelle di Netanyahu. Esiste, infatti, un considerevole consenso nei circoli decisionali sul fatto che, nonostante le violente provocazioni da Gaza, Israele non debba cercare di riconquistare la striscia. E’ vero che un’operazione militare per impadronirsi di Gaza potrebbe mettere fine ai razzi e agli altri attacchi terroristici di Hamas, ma genererebbe anche tutta una pericolosa serie di nuovi problemi. I partiti che sostenevano un’operazione in profondità contro Hamas non sono andati molto bene nelle elezioni.

A quanto pare, l’elettorato israeliano predilige l’approccio cauto adottato dai governi Netanyahu negli ultimi dieci anni, che è quello di intervenire a Gaza in modo limitato solo quando è veramente necessario. Questo approccio si propone obiettivi politici e militari limitati, essendo espressione della tesi secondo cui Israele ha a che fare con un conflitto prolungato e, allo stato delle cose, praticamente intrattabile. In tali circostanze, il ricorso alla forza non ha lo scopo di conseguire obiettivi politici impossibili, quanto piuttosto di contenere/ridurre le capacità nemiche quando necessario allo scopo di dissuadere temporaneamente il nemico e garantire periodi di calma lungo i confini di Israele. Molti israeliani sono certamente esasperati dagli attacchi di Hamas, ma in queste elezioni solo i partiti di estrema destra hanno aspramente criticato la politica del governo, sostenendo l’opzione dell’invasione di Gaza per sradicare l’organizzazione terroristica. La dura posizione su Gaza caldeggiata dal partito Nuova Destra, ad esempio, non gli è servita per evitare la rimozione dalla scena politica.

Scolare di una scuola elementare israeliana in un rifugio antiaereo a Gerusalemme, utilizzato anche come sala computer, durante un’esercitazione nazionale della difesa civile che ha simulato attacchi missilistici da più fronti

La grande maggioranza degli israeliani approva i gesti diplomatici fatti da Trump durante la campagna elettorale: il riconoscimento della sovranità d’Israele sulle alture del Golan e la designazione del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie islamiche iraniane come organizzazione terroristica straniera. I leader di Blu&Bianco vedevano bene che le mosse americane aiutavano oggettivamente Netanyahu, e tuttavia non le hanno criticate. Sapevano che la stragrande maggioranza degli israeliani concorda sulla vitale importanza strategica delle alture del Golan e sull’imperativo di mantenerlo sotto sovranità israeliana. Allo stesso modo, la maggior parte degli israeliani concorda con Netanyahu che l’Iran rappresenta una grave minaccia per la sicurezza nazionale e ha accolto favorevolmente la decisione americana di intensificare le pressioni sul regime islamista di Teheran.

La vicinanza di Netanyahu a Trump viene vista come un punto a suo favore. Per gli israeliani non c’è alcun dubbio che avere buone relazioni con gli Stati Uniti sia un pilastro della sicurezza nazionale del paese. Più in generale, l’abilità diplomatica dimostrata da Netanyahu nello sviluppare forti legami con la Russia, l’India, il Brasile, l’Africa e i paesi del Mediterraneo orientale, e la buona posizione che si è saputo guadagnare in settori importanti del mondo arabo hanno chiaramente giocato a suo favore al momento del voto.

Per Israele la coesione nazionale rimane un ingrediente cruciale per affrontare con successo le gravi sfide alla sicurezza nazionale con cui il paese deve sempre fare i conti. Queste elezioni dimostrano che vi è un ampio ed equilibrato consenso riguardo alla difesa e alle questioni diplomatiche. Per quanto litigiosa possa essere stata la campagna del 2019, è semplicemente sbagliato rappresentare Israele come una nazione profondamente divisa su queste questioni.

(Da: Jerusalem Post, 16.4.19)