L’anti-normalizzazione contro Israele è immorale

Il boicottaggio degli attori palestinesi a Cannes è emblematico di una cultura anti-normalizzazione che promuove il conflitto e allontana la pace

Di Emily Schrader

Emily Schrader, autrice di questo articolo

La scorsa settimana il film israeliano Let There Be Morning, diretto da Eran Kolirin, ha debuttato al Festival di Cannes. Ma invece di fare notizia per i suoi meriti cinematografici, il film è stato coinvolto in una polemica pubblica dal momento che gli attori israelo-palestinesi del cast hanno deciso di boicottare il festival per il fatto che il film è stato classificato come “israeliano”. L’aspetto tristemente ironico, ovviamente, è che il film è stato in parte finanziato dallo stato di Israele: il Ministero israeliano della cultura e dello sport ha contribuito alla produzione con 2 milioni di shekel (ca. 517.000 euro). È interessante notare che non si sono visti gli attori palestinesi restituire i loro compensi.

L’insolente prodezza degli attori del film costituisce una presa di posizione politica priva di qualunque fondamento morale, e serve solo ad allontanare ulteriormente palestinesi e israeliani (in questo caso, accortamente soltanto sulla scena internazionale). Questi attori, che erano stati ben contenti di lavorare con un regista e una produzione israeliani, hanno iniziato a protestare quando il film all’estero non è stato classificato come “palestinese”, e poco male se si tratta della creazione di un autore israeliano, e non palestinese.

La vicenda è paradigmatica del più ampio problema della cultura anti-normalizzazione che viene attivamente e costantemente promossa nella società palestinese. I fautori dell’anti-normalizzazione agiscono in base alla falsa premessa che lavorare con Israele o con gli israeliani significhi ostacolare e tradire la giustizia invocata dai palestinesi. La campagna anti-normalizzazione sta anche alla base del movimento, chiassoso sebbene in gran parte fallito, che propugna boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS). La verità è che le campagne per il boicottaggio e contro ogni normalizzazione non fanno che perpetuare e ingigantire i contrasti fra israeliani e palestinesi: in altre parole, intensificano il conflitto e allontanano la pace. L’ignoranza e il fanatismo che alimentano violenza e odio nel conflitto vengono solo favoriti da iniziative anti-normalizzazione come quella degli attori palestinesi della scorsa settimana. Ma il fenomeno non si riscontra soltanto sotto i riflettori internazionali.

Cartelloni in arabo ed ebraico in una scuola israeliana

Da anni, l’Autorità Palestinese sostiene a parole la politica anti-normalizzazione, che ha ripetutamente dimostrato di procurare soltanto peggioramenti nella situazione della popolazione palestinese. Quando anche diversi stati arabi respingono ormai la cultura dell’anti-normalizzazione, i palestinesi continuano a insistere tirandosi la zappa sui piedi pur di nuocere a Israele. Pochi giorni fa, l’anti-normalizzazione ha fatto un altro passo avanti in Cisgiordania quando il governatore dell’Autorità Palestinese nella regione di Salfit, Abdullah Kmeil, ha ordinato a tutte le imprese commerciali palestinesi di rimuovere cartelli e insegne in ebraico. L’ordine “rigoroso” nasce dal fatto che nelle città palestinesi vicine a insediamenti israeliani i commercianti cercano di attirare clienti ebrei. Ma secondo l’Autorità Palestinese, i cartelli in ebraico contribuiscono a “cancellare le caratteristiche dell’identità palestinese”. Nel frattempo, in Israele la lingua araba è più diffusa che mai, i servizi pubblici sono disponibili in arabo ed ebraico, ci sono segnali stradali in arabo, manifesti politici in arabo, le aziende esibiscono con orgoglio annunci e insegne in ebraico e in arabo e migliaia di persone, sia arabi che ebrei, lavorano insieme ad ogni livello rafforzando la cooperazione, a dispetto delle storiche tensioni.

La lingua, come la musica e le arti, è uno strumento di comunicazione e comprensione reciproca. Quando si inizia a censurare o si mettono a tacere gli strumenti di comunicazione, si allontana attivamente la pace. Questo è ciò che fa la campagna anti-normalizzazione. Il problema fondamentale con l’anti-normalizzazione è che, se non possiamo riunirci per risolvere i problemi e ci teniamo il broncio a vicenda, nessuna delle parti ottiene nulla. C’è una contraddizione intrinseca nell’impiegare, per seminare intolleranza e fanatismo, ciò sarebbe destinato a mettere in comunicazione le persone come le arti e il linguaggio, ma anche gli affari e i commerci. Qualsiasi artista che pensa di promuovere la giustizia aderendo a campagne di intolleranza e settarismo fa esattamente il contrario. Lo stato di Israele non soffrirà più di tanto per il BDS, e questo movimento razzista non realizzerà mai il suo obiettivo ultimo di distruggere Israele. Ma se si vuole perseguire più giustizia per i palestinesi, bisogna promuovere leader responsabili e incoraggiare più, non meno, cooperazione con gli israeliani e con Israele.

(Da: Jerusalem Post, 12.7.21)