Le elezioni che decisero le sorti della pace

Non sono le elezioni in corso in Israele, ma altre elezioni che si tennero 14 anni fa e quelle che non si tennero affatto quattro anni dopo

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

Ciò che la maggior parte degli occidentali, ebrei e non ebrei, non riesce ancora a comprendere è l’ampio consenso che si registra tra gli israeliani sulle questioni di sicurezza e sul processo di pace. L’opinione ampiamente condivisa è che i palestinesi non hanno alcun reale interesse a fare la pace e che quindi, in assenza di un autentico interlocutore per la pace, le concessioni territoriali che pacifisti e amici benintenzionati richiedono a Israele non sarebbero sagge, bensì folli.

Ecco perché tutti i discorsi sulle attuali elezioni israeliane come decisive per il futuro del processo di pace non sono semplicemente sbagliati: essi ignorano il fatto che di fatto la questione è già stata decisa in un’elezione tenuta 14 anni fa, così come in una che non si è tenuta quattro anni dopo.

Sto parlando del voto che ebbe luogo il 9 gennaio 2005, quando Mahmoud Abbas (Abu Mazen) venne eletto presidente dell’Autorità Palestinese, succedendo a Yasser Arafat. Abu Mazen, che era il capo della fazione Fatah di Arafat e il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, vinse con il 62% dei voti. Non fu un risultato molto impressionante se si considera che i suoi rivali di Hamas si erano rifiutati di candidarsi in una tornata elettorale che ritenevano, non del tutto a torto, che fosse predeterminata; e se ricordiamo che, stando a studi di ricercatori palestinesi indipendenti, il 94% della copertura elettorale nei mass-media palestinesi fu una ininterrotta apologia celebrativa di Abu Mazen.

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe già oggi (con confini definitivi e compensazioni territoriali) se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta di Olmert (clicca per ingrandire)

Quelle elezioni furono in gran parte il risultato delle pressioni esercitate dagli americani sia sui palestinesi che sul governo israeliano, allora guidato da Ariel Sharon. Il presidente George W. Bush e il suo team di politica estera si erano convinti che l’istituzione di una democrazia palestinese fosse il prerequisito necessario per la pace. Così come il tentativo analogamente mal concepito dell’amministrazione Bush di convertire in una democrazia l’Iraq appena liberato dalla tirannia di Saddam Hussein, l’idea che la cultura politica palestinese fosse in grado di esprimere e praticare la libertà politica, e tanto meno di optare per la pace, era una fantasia.

Bush aveva giustamente rifiutato Arafat – malauguratamente abbracciato come pacificatore dal presidente Bill Clinton e dai governi israeliani precedenti – in quanto terrorista incallito. Ma Abu Mazen, benché indossasse giacca e cravatta al posto delle uniformi da guerrigliero di Arafat, non era più interessato o capace di porre fine al conflitto con Israele di quanto non lo fosse il suo predecessore. Benché la sua investitura a presidente dell’Autorità Palestinese sia stata annunciata all’epoca come un passo avanti decisivo verso la pace, tutto ciò che Abu Mazen ha fatto è stato rafforzare ulteriormente il governo corrotto di Fatah. Hamas lo etichettava come uno smidollato, ma Abu Mazen non aveva alcuna intenzione di fare davvero la pace.

Nel 2006 il gruppo terroristico islamista vinse le elezioni parlamentari palestinesi. Poi, nel giugno 2007, ordì un sanguinoso golpe con cui si impadronì del potere nella striscia di Gaza. Quindi non fu una sorpresa per nessuno il fatto che, quando arrivò il momento di indire un’altra elezione presidenziale palestinese, Abu Mazen rimase semplicemente al potere senza convocare nessuna votazione: non si sono più tenute elezioni per la presidenza dell’Autorità Palestinese né in Cisgiordania né a Gaza sotto il controllo di Hamas, e Abu Mazen si trova attualmente nel 15esimo anno di un mandato quadriennale.

Abu Mazen: “Non riconoscerò mai l’ebraicità dello stato o uno stato ebraico”

Se i palestinesi avessero potuto eleggere una persona disposta o in grado di fare la pace, avrebbero afferrato l’offerta avanzata dal primo ministro israeliano Ehud Olmert del 2008 per uno stato palestinese indipendente a Gaza e in quasi tutta la Cisgiordania, nonché su una parte di Gerusalemme. Invece, come aveva fatto Arafat nel 2000 e nel 2001, Abu Mazen ha detto “no”. E ha continuato a dire di no quando l’amministrazione Obama rianimò i negoziati e Netanyahu espresse la volontà di negoziare il futuro della Cisgiordania (anche congelando per un anno, invano, tutte le attività edilizie ebraiche nei territori, come pretendevano i palestinesi ndr). E ha continuato fino ad oggi a rifiutarsi di riconoscere la legittimità di uno stato nazionale del popolo ebraico indipendentemente da dove siano tracciati i suoi confini. Ciò significa che non ha alcuna intenzione di riconoscere che la secolare guerra arabo-palestinese contro il sionismo è fallita e che la guerra è finita.

Sono state le elezioni palestinesi del 2005 e del 2006, oltre a quelle che non si sono tenute nel 2009, a chiarire che la pace con Israele è impossibile fino a quando un cambiamento profondo e radicale nella loro cultura non darà vita a una leadership seriamente intenzionata a fare la pace. Se mai dovesse emergere una tale leadership, essa troverà senza dubbio interlocutori disponibili sul versante israeliano. Ma è un auspicio per il futuro. Per il momento, gli israeliani capiscono bene che i palestinesi hanno già fatto la loro scelta contro il compromesso, la convivenza e la pace, indipendentemente da ciò che faranno o non faranno Netanyahu, Benny Gantz o qualsiasi altro eventuale primo ministro israeliano. Ed è ora che tutti coloro che si atteggiano a esperti del conflitto israelo-arabo-palestinese facciano i conti con questa realtà di fatto, anziché continuare a far circolare fantasie su una pace che i palestinesi hanno già respinto.

(Da: jns.org, 16.9.19)