Le “fonti palestinesi” colpiscono ancora

Perché si prendono per oro colato le condanne senza prove di “enti umanitari” di dubbia credibilità?

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2277La scorsa settimana i mass media sia israeliani che esteri hanno totalmente abboccato all’asserzione spacciata per un dato di fatto dal Palestinian Center for Human Rights (PCHR) secondo cui il 27 settembre un pastore adolescente originario di Akrabeh, a sud di Nablus (Cisgiordania) era stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da coloni israeliani di Gittit, nella Valle del Giordano.
Il fatto che Gittit, presso Mechora, non sia affatto un covo di estremisti non è valso a mitigare la condanna istantanea del presunto fatto. Successivamente, però, gli investigatori della polizia forense e l’autopsia eseguita sul corpo del 19enne Yihya Atta Bani-Minya hanno rivelato non solo che sulla vittima non vi erano segni di colpi d’arma da fuoco, ma anzi che la morte era stata causata in realtà dal fatto che il giovane aveva maneggiato una bomba inesplosa da 40 mm.
Il fatto che l’accusa così poco credibile avanzata dal Palestinian Center for Human Rights – la cui fama non brilla certo per attendibilità ed è anzi caratterizzata da evidentissimi secondi fini propagandistici – sia stata così presa per oro colato con tanta disinvoltura persino all’interno di Israele è motivo di seria preoccupazione.
Per due giorni interi, politici e giornalisti di primo piano hanno collegato la morte (accidentale) del pastore arabo al recente attentato contro il prof. Ze’ev Sternhell e addirittura all’assassinio di Rabin, senza aspettare nemmeno le prime risultanze delle indagini. Come prevedibile, poi, le accuse infondate hanno ricevuto una risonanza, specie sul mass-media elettronici, che non è stata per nulla concessa ai successivi risultati dell’indagine.
Tutta questa fretta di emettere condanne indipendentemente dalle prove non dovrebbe mai trovare giustificazione, neanche presso coloro che sostengono che il curriculum dei coloni è tutt’altro che immacolato e che trovavano credibile la versione del Palestinian Center for Human Rights. Anche solo il fatto che venisse chiamata in causa la comunità di Gittit avrebbe dovuto suggerire qualche cautela, così come il dato di fatto che sono, in realtà, rarissimi i casi di ebrei che uccidono arabi totalmente a freddo.
Un aspetto ancora più preoccupante è che il Palestinian Center for Human Rights, almeno fino al momento in cui scriviamo, ha continuato imperterrito a diffondere senza correzioni la sua prima versione della vicenda attraverso il suo sito web, omettendo qualunque riferimento all’indagine di polizia. “Palestinian Center for Human Rights – si legge nel sedicente rapporto – condanna senza mezzi termini questo odioso crimine e ribadisce che trascurare le proteste dei civili palestinesi contro i coloni israeliani unito alla protezione garantita ai coloni dalle Forze di Occupazione israeliane, non fa che incoraggiare i coloni stessi a continuare a lanciare aggressioni contro inermi civili palestinesi”.
Non è tutto. “Secondo testimoni oculari – continua il resoconto tuttora tuttora diffuso dal Palestinian Center for Human Rights – il corpo è stato colpito da circa 20 proiettili al collo, al petto e alle gambe”. E Palestinian Center for Human Rights continua chiedere che “i responsabili vengano portati in giudizio” e che “tutti i coloni israeliani vengano disarmati”.
Questo scagliare sentenze, soprattutto se corredate di falsità, non è cosa di poco conto: può facilmente innescare veri e propri incendi. Diffondere menzogne è come gettare fiammiferi accesi in polveriera. Ma forse Palestinian Center for Human Rights desidera proprio incendiare gli animi degli arabi di qui, e fomentare sentimenti di vendetta per un crimine che non c’è stato. La cosa triste è che Palestinian Center for Human Rights vanta estesi legami con accademici e gruppi per i diritti umani israeliani, e ha co-sponsorizzato la campagna per trascinare in giudizio per crimini di guerra ex generali israeliani come Shaul Mofaz, Moshe Ya’alon e Doron Almog.
Ancora più sconsiderato è il ruolo di quegli israeliani che riecheggiano acriticamente le accuse fasulle. Quando la colpa viene indiscriminatamente addossata a tutti gli abitanti degli insediamenti, la maggioranza dei quali sono cittadini del tutto rispettosi della legge, quel che ne risulta è un esteso sentimento di alienazione e un crescente senso di isolamento. Questa alienazione dai propri stessi concittadini israeliani alimenta esattamente quelle frange estremiste che gli antagonisti politici dei coloni vorrebbero censurare. L’ultima cosa di cui la società israeliana ha bisogno è di maggiore polarizzazione, di maggiore estremismo incoraggiato da qualsivoglia elemento e per qualsivoglia ragione. Ciò di cui abbiamo più bisogno è sangue freddo e moderazione, anche al prezzo di rimetterci qualche guadagno politico immediato.

(Da: Jerusalem Post, 5.10.08)