Le illusioni di un certo pacifismo (israeliano)

L’attuale sviluppo economico in assenza di pace smentisce l’ultimo di una serie di slogan

Da un articolo di Martin Sherman

image_1700Mentre il dollaro scende sotto i 4 shekel, va in frantumi un altro degli slogan di una certa sinistra pacifista israeliana, e cioè quello secondo cui Israele, per poter prosperare economicamente, deve fare concessioni politiche pur di arrivare a una sistemazione di pace con i palestinesi. (…)
Non era il primo di questi slogan ed essere smentito dai fatti. Basterà qualche esempio.
Inizialmente i pacifisti sostenevano che Israele avrebbe dovuto ritirarsi dai territori sulla base di una composizione negoziata giacché “c’è un interlocutore con cui trattare” sul versante palestinese. Poi però, quando questo fatto si rivelò infondato, anziché ammettere l’errore i pacifisti hanno insistito che Israele dovesse ritirarsi unilateralmente senza negoziare perché sul versante palestinese “non c’è nessuno con cui trattare”. Dunque, dapprima l’esistenza, poi la non esistenza di un interlocutore negoziale palestinese valido e affidabile sono state entrambe invocate a sostegno della politica delle concessioni.
Originariamente i pacifisti sostenevano che Israele avrebbe potuto permettersi di abbandonare territori giacché era abbastanza forte per fare fronte ai rischi che tali cessioni comportavano. Successivamente, quando è apparso chiaro che cedere territorio non produceva affatto i risultati desiderati, i pacifisti anziché ammettere l’errore hanno insistito che Israele dovesse continuare ad abbandonare territori perché non è abbastanza forte per fare fronte ai rischi che comporta mantenerli sotto il proprio controllo. Dunque prima la forza di Israele, e poi la sua mancanza di forza sono state entrambe invocate a sostegno della politica dei ritiri.
Prima dell’avvio del cosiddetto “processo di pace” di Oslo, i pacifisti sostenevano che gli attentati terroristici erano atti di estremisti causati dalla frustrazione per la “mancanza di qualunque prospettiva di pace”. Tuttavia, dopo l’inizio del “processo di pace”, quando gli attentati terroristici non solo continuarono imperterriti, ma anzi aumentarono fino a livelli senza precedenti, i pacifisti ancora una volta si rifiutarono di ammettere l’errore. Anzi, insistettero che il “processo” dovesse continuare giacché adesso gli attentati vengono spiegati come atti di estremisti causati dalla loro volontà di fermare il “processo di pace”. Dunque dapprima la rabbia degli estremisti per l’assenza di una prospettiva di pace, poi la rabbia degli stessi estremisti per la presenza di una prospettiva di pace sono state entrambe invocate a sostegno della politica di appeasement. (…)
Oggi appare evidentemente infondata anche la tesi secondo cui, senza un accordo politico, l’economia israeliana non potrà fiorire. Si tratta di un argomento efficace, invocato subito dopo gli Accordi di Oslo; un argomento che ottenne grande risonanza nella popolazione israeliana ansiosa di entrare nell’Eldorado del Nuovo Medio Oriente. Ma i fatti hanno smentito quella tesi. Oggi, in un momento in cui le prospettive di pace sembrano più remote che mai, l’economia israeliana è in pieno sviluppo. Il Pil pro capite è salito sopra i 20.000 dollari, superando la media della UE e avvicinandosi ai 30.000 dollari in termini di PPP (parità di potere d’acquisto); per la prima volta nella storia del paese la bilancia dei pagamenti ha iniziato a mostrare un surplus; l’inflazione è bassa; il deficit di bilancio è sotto controllo; i capitali esteri affluiscono nel paese, innalzando significativamente lo shekel rispetto alle principali valute internazionali. Eppure non si vede all’orizzonte uno straccio di “processo di pace”.
Secondo dati del ministero delle finanze, nei tre cupi anni (1990-92) che precedettero gli Accordi di Oslo del ’93, la crescita media del Pil fu del 6,6%, mentre nei successivi tre euforici anni (1994-96) il tasso di crescita scese al 6,1%. Di fatto, se si guarda al decennio nel suo complesso, il tasso di crescita di tutto il periodo post-Oslo (1994-99) fu solo del 4,5%: significativamente più basso della media di 5,2% di tutto il decennio (1990-99) e certamente molto più basso del 6,6% del triennio pre-Oslo. Inoltre, benché sia vero che gran parte della crescita pre-Oslo era alimentata dall’ondata di immigrati dall’ex-Unione Sovietica, questo era vero anche, se non di più, per la crescita degli anni post-Oslo. E va anche ricordato che gran parte della crescita sotto l’amministrazione Rabin-Peres (1992-96), con Avraham Shochat alle finanze, fu artificialmente alimentata da grossi deficit di bilancio che verso la fine di quel periodo stavano per mettere seriamente a repentaglio la stabilità economica del paese. Per cui, se deduciamo dal tasso di crescita post-Oslo (a) il contributo della continua immigrazione e (b) l’effetto artificioso della crescita dovuta all’eccessivo deficit di bilancio, resta ben poco da attribuire al “processo di pace” visto come catalizzatore di sviluppo economico. Per contro, l’attuale sviluppo economico non può essere attribuito né a grandi flussi di immigrati né a politiche di bilancio permissive. Dunque, il fatto che stia avendo luogo in una situazione in cui anche il più ardente pacifista inizia a disperare in qualunque prospettiva di pace, smentisce in modo clamoroso la tesi per cui lo sviluppo economico israeliano sarebbe possibile soltanto se si raggiungesse una composizione politica.
In verità, la fissazione di certa sinistra pacifista per la formula “terra in cambio di pace”, promossa con un atteggiamento alquanto disinvolto verso la realtà dei fatti, ha già procurato danni notevolissimi.

(Da: YnetNews, 16.05.07)

Nella foto in alto: Martin Sherman, scienze politiche all’Università di Tel Aviv, autore di questo articolo