Le Nazioni Unite e il “territorio nemico” di Gaza

Da tempo l’Onu ha perso il diritto di disquisire sulla legalità delle misure di difesa israeliane

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1839Mercoledì scorso il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon si è detto “molto preoccupato” per la decisione israeliana di definire la striscia di Gaza “territorio nemico” riservandosi, di conseguenza, il diritto di sospendere alcune forniture come elettricità o carburante. “Vi sono 1,4 milioni di persone a Gaza – ha detto Ban Ki-moon – e non devono essere punti per colpa delle gesta inaccettabili di militanti ed estremisti. Chiedo a Israele di di riconsiderare la sua decisione”.
Poi, come per un ripensamento peraltro ignorato dalla quasi totalità dei mass-media, la dichiarazione di Ban Ki-moon si concludeva dicendo: “Il continuo e indiscriminato lancio di missili da Gaza su Israele è inaccettabile e lo biasimo. Chiedo che cessi immediatamente, e capisco le preoccupazioni israeliane per la sicurezza in questa materia”.
Beh, forse no. Se l’Onu “capisse” davvero le preoccupazioni israeliane, avrebbe condannato quello che Ban Ki-moon definisce giustamente “l’indiscriminato lancio di missili” immediatamente, ufficialmente e coerentemente, e non solo come una sorta di aggiunta a pie’ pagina di una dichiarazione di condanna di Israele.
Sotto molti aspetti, da tempo l’Onu ha perso il diritto di disquisire sulla legalità delle misure di difesa israeliane. Nessuna nazione o organismo che ignora il deliberato fuoco sui civili israeliani ha il diritto di criticare le reazioni di Israele. Condannare la risposta israeliana mentre si resta sostanzialmente zitti sugli attacchi spudoratamente illegali e terroristici che quella risposta hanno provocato, costituisce un chiaro fallimento della giustizia, della legalità e del buon senso. Che tale schema sia da tempo diventato uno standard normale non lo rende meno indecente.
Il diritto internazionale diventa peggio che senza senso se viene interpretato come una forma di patto suicida. Contestare la legalità delle misure che Israele sta prendendo in considerazione e che, oltre a colpire il regime di Hamas, danneggerebbero anche palestinesi innocenti, è del tutto legittimo. Ma tali critiche devono anche saper rispondere a una semplice domanda: cosa dovrebbe fare Israele per reagire in modo legale al lancio indiscriminato di missili sui suoi cittadini?
Quando Israele prende in considerazione sanzioni sulle forniture di elettricità a Gaza, si parla di “punizione collettiva”. Quando ricorre alle uccisioni mirate di singoli terroristi e mandanti lo si condanna per “omicidi extragiudiziali”. D’altra parte, dubitiamo assai che chi emette queste condanne perorerebbe l’alternativa di una rioccupazione delle aree della striscia di Gaza da cui viene lanciata la maggior parte dei Qassam. E naturalmente si opporrebbe con forza anche a un vasto impiego di incursioni militari, che inevitabilmente causerebbero la morte, oltre che di molti terroristi, anche di alcuni civili presi nel fuoco incrociato, per non dire di quella dei soldati israeliani.
Esasperati, i critici potrebbero sbottare: “Ma insomma, perché non ve ne andate semplicemente da Gaza?”. Che è esattamente quello che abbiamo già fatto, nella convinzione appunto che i palestinesi non avrebbero continuato ad attaccarci da un territorio che abbiamo abbandonato, mettendo a repentaglio, anziché incoraggiare, ulteriori futuri ritiri. E nella convinzione che, se i palestinesi, contro ogni logica, ci avessero attaccato ancora da Gaza, il mondo sarebbe stato lealmente al nostro fianco nella risposta a una tale infamia.
Non sostenere Israele in questo momento, dunque, serve a dissuadere gli israeliani dall’assumersi proprio quei “rischi per la pace” a cui veniamo continuamente sollecitati. Perché Israele dovrebbe dare ascolto a queste sollecitazioni quando farlo gli si ritorce contro e si traduce in ancor meno sostegno da parte di presunti amici?
Ma la mancanza di credibilità dell’Onu sul conflitto arabo-israeliano va anche oltre. In questo momento, ed esempio, fervono i preparativi per la conferenza detta “Durban Due”, sotto l’egida ufficiale di Europa e Nazioni Unite. Come la precedente del 2001, anche questa, organizzata con l’amorevole sostegno di campioni di diritti umani quali la Libia e l’Iran, potrebbe segnare il ritorno in auge della vecchia risoluzione Onu (poi abrogata) nota come “sionismo uguale razzismo”.
Nel complesso, il nuovo segretario generale dell’Onu sembra avere una consapevolezza molto maggiore della situazione in cui si trova Israele, ma è difficile vedere questa maggiore comprensione riflettersi nei comportamenti delle Nazioni Unite. Ban Ki-moon non ha il potere né la volontà di staccare la spina a una conferenza che mira a fomentare odio e razzismo e che danneggia le prospettive di pace, per cui la conclusione ineluttabile è che l’Onu, su questo tema, gioca un ruolo che appare incorreggìbilmente dannoso.
L’Onu dovrebbe cancellare “Durban Due”. Poi, se è davvero animato da sincere preoccupazioni umanitarie per i palestinesi, per non dire degli israeliani, dovrebbe accentuare drasticamente la sua condanna del terrorismo palestinese contro Israele. Se il Consiglio di Sicurezza non solo condannasse con forza gli attentati terroristici (anche quelli sventati), ma imponesse concrete sanzioni diplomatiche contro il regime delinquenziale di Hamas, ciò potrebbe contribuire a dissuadere i burattinai del terrore, e a diminuire la necessità di reazioni israeliane, militari o d’altra natura.
In mancanza di tutto questo, è l’Onu e non Israele che deve essere criticata per il suo contributo alle pene umanitarie e per il danno alla causa della pace.

(Da: Jerusalem Post, 21.09.07)

Nella foto in alto: Un’abitazione israeliana a Sedrot colpita da un Qassam palestinese lo scorso agosto