Le relazioni Usa-Israele alla prova degli ultimi giorni da novello Nerone del presidente Trump
La leadership israeliana deve ricostruire il rapporto bipartisan con la politica americana preservando i vitali risultati ottenuti, che hanno reso Israele più sicuro
Di Lahav Harkov
L’assalto al Campidoglio e le affermazioni infondate secondo cui le elezioni sono state “rubate” al presidente americano uscente Donald Trump non hanno nulla a che fare con Israele. Ma Israele dovrà fare i conti con l’eredità di Trump e la sua enorme impronta in Medio Oriente.
Ripercorrendo gli ultimi quattro anni, è impressionante il numero di scelte politiche fatte da Trump che corrispondono alle ragioni e agli interessi di Israele. L’amministrazione Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan, ha presentato un piano di pace tra Israele e palestinesi che poteva essere scritto dallo stesso primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. L’amministrazione Trump ha dichiarato che gli insediamenti non sono di per sé illegali, ha permesso agli americani nati a Gerusalemme di scrivere “nato in Israele” sul loro passaporto e ai beni prodotti in Giudea e Samaria di essere etichettati come “made in Israel”. L’amministrazione Trump ha abbandonato l’accordo sul nucleare del 2015 che piaceva tanto all’Iran e lo ha sostituito con sanzioni e ancora sanzioni. Poi ha convinto altri paesi della regione, che vedono nell’Iran un pericoloso nemico, a firmare storici accordi di pace con Israele.
Netanyahu e molti altri in Israele non hanno risparmiato elogi al mercuriale presidente americano, noto per essere molto sensibile dall’adulazione. Non che i complimenti non fossero sinceri. E i sondaggi d’opinione hanno ripetutamente mostrato che la maggior parte degli israeliani approvava Trump. A un certo punto hanno mostrato che Israele era il paese dove Trump piaceva di più al mondo. L’effetto è stato quello di creare un’identificazione quasi totale tra Israele e Trump, insieme alla totale identificazione fra Trump e le recenti politiche statunitensi verso Israele. Ora che Trump termina la sua presidenza aizzando i suoi sostenitori che danno l’assalto al simbolo della democrazia americana, il rapporto Usa-Israele rischia di andare a fondo insieme a lui?
La leadership israeliana farebbe bene a iniziare a fare una cosa che avrebbe dovuto fare già mesi fa, quando è apparso chiaro che Joe Biden aveva vinto le elezioni presidenziali: iniziare a prendere le distanze dal presidente Trump pur mantenendo salda la propria posizione sulle sue politiche, che hanno reso Israele più sicuro e tutelato. In questi ultimi mesi Netanyahu si è confermato più affettuoso che mai a proposito di Trump. Il ragionamento alla base di questo atteggiamento era chiaro. Dopotutto, l’allora presidente Barack Obama compì uno dei passi della politica americana più dannosi per Israele quando, pochi giorni prima di lasciare la Casa Bianca, lasciò passare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che condannava Israele. Quando a Trump restavano ancora due mesi e mezzo da trascorrere alla Casa Bianca avrebbe potuto fare scelte politiche che potevano aiutare o danneggiare Israele. E in quel periodo, in effetti, si sono viste ulteriori pressioni sull’Iran e l’ingresso del Marocco negli Accordi di Abramo.
Ma ora le cose sono drammaticamente cambiate. Negli ultimi quattro anni molte persone, inclusi molti sionisti americani, avevano avvertito che Trump è una figura estremamente controversa e che Netanyahu non avrebbe dovuto agganciare troppo strettamente Israele a quel carro. D’altra parte, sarebbe stata un’inadempienza al proprio dovere se Netanyahu non avesse fatto tutto il possibile per promuovere gli interessi di Israele nel momento in cui aveva correttamente visto l’amministrazione Trump come un’opportunità unica per realizzare obiettivi che ritiene vitali per il paese. E non è che Netanyahu fosse il solo a vederla in questo modo, come dimostravano i sondaggi e le prese di posizione di esponenti della maggioranza e dell’opposizione. Il riconoscimento di Gerusalemme e del Golan, le serie preoccupazioni per l’accordo sul nucleare iraniano e il caloroso sostegno agli Accordi di Abramo con paesi arabi sono questioni che riscuotono un consenso quasi unanime in Israele.

Il presidente d’Israele Reuven Rivlin e il neo eletto presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in una foto d’archivio
Alcune di queste politiche – va sottolineato – godevano di un sostegno bipartisan anche negli Stati Uniti. Ad esempio, il neo eletto presidente Biden è stato a suo tempo uno dei membri del Congresso che hanno firmato il disegno di legge originario per lo spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, e di recente ha detto che non intende riportarla a Tel Aviv. Biden si è anche espresso apertamente a favore degli Accordi di Abramo. L’ampio sostegno al normale accoglimento di Israele fra i paesi del Medio Oriente e il vasto sostegno israeliano a molti dei passi compiuti da Washington negli ultimi quattro anni – non il presidente sotto il quale sono stati fatti quei passi – dovrebbe essere ciò che la leadership israeliana sottolinea al fine di preservare quei risultati.
Biden ha dichiarato il proprio sostegno a Israele e ha anche parlato con affetto di Netanyahu. Ma Israele si è trovato in difficoltà a preservare il sostegno bipartisan che precedeva Trump, difficoltà che non hanno fatto che aumentare con l’estrema sinistra del partito Democratico che invoca politiche fortemente ostili a Israele. Quell’ala del partito è ancora minoritaria, ma con i Democratici che ottengono il controllo di entrambe le Camere del Congresso, Israele si troverà probabilmente ad affrontare questa nuova sfida. Una sfida che tenderà a crescere man mano che Israele intraprenderà il difficile compito di mettere una distanza tra sé e Trump e ricostruire il sostegno bipartisan, specialmente ora che Trump termina il suo mandato come un novello Nerone che suona la cetra delle divisioni americane mentre il mondo fa a fuoco intorno a lui.
(Da: Jerusalem Post, 7.1.21)