Le sofferenze dei palestinesi che non interessano (agli anti-israeliani)

I palestinesi in Siria sarebbero stati assai più fortunati se si fossero trovati in Cisgiordania e persino nella striscia di Gaza. Ma il New York Times non se ne accorge

Di Caroline B. Glick

Caroline B. Glick, autrice di questo articolo

Come si può spiegare l’indifferenza della comunità internazionale di fronte alla (vera) sofferenza dei palestinesi?

Praticamente ogni giorno accozzaglie di furibondi dimostranti bruciano in piazza la bandiera israeliana invocando la distruzione dello stato ebraico e lanciando appelli affinché Israele e i suoi cittadini ebrei vengano ostracizzati dalla società benpensante e banditi dall’economia globale in nome della protesta contro “l’Occupazione”. Anche se costoro si sgolano a spiegare che tutti i loro sforzi sono per il bene dei palestinesi, a quanto è dato sapere nessuno dei loro attacchi contro Israele ha mai minimamente migliorato la condizione dei palestinesi. Al contrario, le loro roboanti proteste hanno garantito via libera a coloro che davvero fanno del male ai palestinesi.

Le furenti proteste cariche di odio contro Israele non dicono nulla della storia dei rapporti fra palestinesi e lo stato ebraico né delle loro condizioni attuali. Quali sono queste condizioni? Si considerino le vicende di due diversi gruppi di detenuti palestinesi.

La prima riguarda i terroristi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane dopo essere stati processati e condannati per aver intrapreso attentati  terroristici contro Israele. Guidati dal terrorista Marwan Barghouti, che sta scontando più ergastoli per aver assassinato diversi civili israeliani, lo scorso aprile un migliaio di terroristi detenuti ha aderito a uno sciopero della fame chiedendo miglioramenti delle condizioni carcerarie. Il New York Times ha pubblicato un editoriale firmato da Barghouti e ha seguito con assiduità e partecipazione le vicende dello sciopero, così come hanno fatto molti altri mass-media di prima grandezza. Celato sotto i fiumi di inchiostro dedicati all’evento restava il fatto fondamentale che le richieste stesse avanzate dei detenuti terroristi smascheravano il carattere risibile del loro sciopero. Non chiedevano cibo. Non chiedevano giusti processi, o il diritto di parlare con i loro avvocati. Chiedevano che le autorità israeliane aggiungessero altri 20 canali al loro accesso standard e gratuito alla televisione via cavo. Chiedevano che le autorità israeliane permettessero l’uso di telefoni nei loro locali. Chiedevano che le autorità israeliane gli pagassero l’aria condizionata. In altre parole, chiedevano che Israele li trattasse meglio di come tratta i propri soldati.

Una bandiera israeliana data alle fiamme di fronte al parlamento, a Melbourne (Australia), durante una manifestazione “contro la guerra” nell’anniversario dell’atomica su Hiroshima

La seconda vicenda è quella dei 12.000 palestinesi imprigionati nelle carceri del regime di Damasco dall’inizio della guerra civile siriana. Si tratta di uomini, donne e bambini cui sono negati cibo e acqua sufficienti. Subiscono torture. Sono stati segnalati diversi casi di carcerate palestinesi che hanno subìto stupri di gruppo. Più di 500 palestinesi sono morti nelle galere siriane. Più di 500 bambini palestinesi si trovano dietro le barre. E la situazione dei palestinesi all’esterno non è migliore. Quasi 4.000 palestinesi sono stati uccisi dalle forze del regime dall’inizio della guerra. Il campo palestinese di Yarmouk è stato praticamente svuotato: là dove, prima dello scoppio della guerra nel 2011, risiedevano più di 120mila palestinesi a soli 8 km dal centro di Damasco, oggi non ne rimangono più di 20mila. E quelli che ancora vi si trovano sono rimasti assediati dalle forze del regime per quasi tre anni, affamati e assetati: l’acqua corrente è stata tagliata anni fa.

Eppure, l’unico giornalista che ha continuato con coerenza a raccontare la loro storia è il corrispondente per gli affari palestinesi Khaled Abu Toameh, che scrive per il sito di nicchia dell’Istituto Gatestone (oltre che per il Jerusalem Post). Come ha notato Abu Toameh in un reportage sui palestinesi in Siria dello scorso agosto, i capi dell’Olp e dell’Autorità Palestinese, come i loro “un po’ soci e un po’ rivali” di Hamas, si sono rifiutati di intervenire in loro favore. Al contrario, l’anno scorso l’Olp ha serenamente riaperto la propria ambasciata a Damasco nonostante il fatto che sia accreditata presso un regime che sta massacrando le persone che l’Olp sostiene di rappresentare. Ha commentato amaramente Abu Toameh: “I palestinesi in Siria sarebbero stati assai più fortunati se si fossero trovati in Cisgiordania o nella striscia di Gaza perché di certo non sarebbero sfuggiti all’attenzione della comunità internazionale e dei suoi mass-media. Ogni volta che i giornalisti occidentali impiegano tutto il loro tempo a occuparsi dei palestinesi trattenuti ai posti di controllo israeliani, ignorando le bombe sganciate dai militari siriani sulle zone abitate da palestinesi in Siria, dovremmo chiederci che razza lavoro stiano davvero facendo”.

(Da: Jerusalem Post, 5.6.17)