L’ebraico in Israele

Una lingua viva e dinamica, ma che corre anche dei pericoli

Da un articolo di Meir Shalev

image_1939Tanto tempo fa, dopo una conferenza che avevo tenuto negli Usa, una donna mi si avvicinò e mi chiese di firmare uno dei miei libri che era stato pubblicato là. “E’ per mio figlio, mi disse in ottimo ebraico. “Come si chiama?” chiesi. “Sagi” rispose “ma per favore lo scriva in inglese”.
Io scrissi “A Sagi” e, tanto per non sbagliare, scrissi anche il mio nome in inglese. Chi non sa leggere il proprio nome in ebraico troverà probabilmente difficoltà a leggere altri nomi. La donna era imbarazzata. “Lo so che cosa sta pensando” disse “ma con i ragazzi è così. Dopo una generazione o due in America, la loro israeliantà scompare, e così il loro ebraico”.
Il giorno dopo, in un’altra città, trovai lo scena opposta. Un ex israeliano tra il pubblico si alzò e disse con ira: “Ogni volta che vado in Israele, non capisco quello che dicono per la strada. Non capisco questo nuovo slang. Che razza di ebraico è?”.
Questa volta non riuscii a trattenermi. “Mentre voi ve ne state comodi in America, noi, in Israele, lavoriamo. Parliamo in ebraico, scriviamo in ebraico e inventiamo nuove espressioni e nuove parole. Non abbiamo intenzione di congelare l’ebraico in attesa delle vostre visite”.
Ho raccontato queste storie perché oggi l’Accademia della Lingua Ebraica celebra il 150esimo anniversario della nascita di Eliezer Ben-Yehuda, colui che “resuscitò la lingua ebraica.”
Prima di tutto devo dire che questo titolo di merito deve essere modificato. Ben-Yehuda non resuscitò l’ebraico per la semplice ragione che l’ebeaico non era mai morto. Era stato tenuto in vita. Certo, non era usato nella vita quotidiana, ma testi letterari e religiosi erano scritti in ebraico, era usato per comunicazioni tra comunità ebraiche che non potevano corrispondere in altre lingue, ed era perfino parlato, anche se soprattutto con Dio.
Non intendo sottovalutare l’opera o la figura di Ben-Yehuda. Egli è una delle più grandi figure nella storia del popolo ebraico. Sarebbe appropriato non solo per l’Accademia, ma anche per la Knesset, indire un convegno speciale in suo onore. Il dizionario da lui composto fu un’impresa gigantesca compiuta da un uomo solo, che disgraziatamente nessuno finora è stato in grado di ripetere, anche se ce n’è bisogno.
Ogni foglio scritto e ogni conversazione in ebraico sono un memoriale a Ben-Yehuda. Io ho particolarmente cara la vista degli ultra-ortodossi a Gerusalemme che parlano tra di loro in buon ebraico moderno. I loro antenati perseguitarono Ben Yehuda, lo accusarono falsamente, gli fecero la spia fino a farlo imprigionare in un carcere turco Eppure eccolo qui a celebrare la sua vittoria con le parole dei loro discendenti.
Mi domando se avesse previsto la sua grande vittoria. Comprendeva quale bella addormentata stava baciando? Quale meraviglioso genio della lampada stava liberando dai libri e dalle preghiere? In un tempo relativamente breve siamo riusciti ad avere una lingua viva e dinamica, al punto che i genitori trovano difficile capire quello che dicono i figli, eppure allo stesso tempo, con quegli stessi figli, possono leggere versi scritti migliaia d’anni fa.
Ma l’ebraico è anche un campo di battaglia di parole ed espressioni, di esistenza e sopravvivenza. Subisce rapidamente dei processi che per le altre lingue sono stati lenti. Senza averne l’intenzione, Ben-Yehuda si imbarcò in un processo che in futuro vedrà l’ebraico spaccato in una lingua moderna e una classica. Già oggi molte allusioni bibliche non vengono capite dai lettori, mentre i modi di dire antichi vengono dimenticati, oppure usati senza riconoscerne l’origine. Dovremmo forse dispiacerci di quest’ignoranza? Non necessariamente. Quando un modo di dire si distacca dalla sua origine, sappiamo che ha raggiunto uno status indipendente e forte.
Mentre celebriamo il 150esimo anniversario di Ben-Yehuda, l’ebraico è una realtà. Eppure è minacciato da altri pericoli. Uno di essi è la diminuzione e l’appiattimento. Un altro è rappresentato dalle lingue straniere. Non il produttivo scambio tra le lingue, ma piuttosto l’imitazione e il disprezzo di sé. Il terzo è un vero e proprio pericolo esistenziale. L’ebraico non continuerebbe ad esistere senza Israele. Senza uno stato ebraico, morirebbe nel giro di due generazioni, proprio come diceva la madre di Sagi.

(Da:YnetNews, 12.10.07)

Nella foto in alto: Eliezer Ben-Yehuda