L’ennesima auto-illusione dei palestinesi

Ogni tanto dichiarano l’indipendenza, ma non sono in grado né vogliono creare un vero stato

Da un articolo di Moshe Elad

image_2012“Tratteneteci o proclameremo l’indipendenza”: ecco una dichiarazione ormai ricorrente, che i palestinesi declamano ogni qualche anno, di solito quando i negoziati sono a un punto morto. La settimana scorsa è stata la volta di Yasser Abed Rabbo, appena riemerso dall’oblio pieno di spirito pugnace, pronto a leggere ad alta voce parole che gli vengono dettate da Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Sullo sfondo di questa uscita sta l’aggiunta alla famiglia delle nazioni musulmane del neo-indipendente Kosovo. Per un momento i leader dell’Autorità Palestinese si sono cullati nell’illusione che una mera dichiarazioni possa colmare la distanza che corre fra il sogno dell’indipendenza palestinese e la reale sovranità sui territori. “Il Kosovo gode di minor appoggi internazionali di noi, dunque perché non dichiariamo anche noi l’indipendenza?”, si sono chiesti i palestinesi.
Se fossi al posto del leader del Kosovo Hashim Thaci, suggerirei ad Abed Rabbo di mostrare un po’ più di riguardo prima di fare paragoni di questo genere. In fatto di meri proclami, infatti, i palestinesi non sono secondi a nessuno. Già vent’anni fa, il 15 novembre 1988, il Consiglio Nazionale Palestinese riunito ad Algeri proclamò solennemente l’indipendenza di un presunto stato palestinese. La dichiarazione venne riconosciuta da più di cento paesi. Il 4 maggio 1999, il Consiglio Nazionale Palestinese ratificò nuovamente la dichiarazione di indipendenza “in conformità alle convenzioni internazionali”, ed anche quella volta godette di un vasto sostegno internazionale.
Perché dunque i palestinesi non riescono a creare il loro stato nonostante tutte queste dichiarazioni? Vi sono almeno tre ragioni principali.
Innanzitutto una ragione che attiene all’arena internazionale. Per creare uno stato sovrano non basta avere un organismo politico che si proclami indipendente e che goda del sostegno internazionale. C’è un’altra condizione fondamentale che i palestinesi devono soddisfare: mostrare che il nuovo stato è in grado di esercitare effettivamente quella che viene definita “autorità de facto” sull’area sotto la sua giurisdizione. Invece, agli occhi di Israele e della maggior parte delle altre nazioni del mondo, i leader palestinesi nel corso degli anni hanno completamente fallito su questo piano. A meno che non si voglia definire “controllo” il gracile rapporto tra il “leader assente” Abu Mazen e i suoi territori, soprattutto la striscia di Gaza.
Un’altra ragione per cui lo stato palestinese indipendente non riesce a nascere riguarda il versante economico. Tutta la storia dell’Autorità Palestinese sin dagli accordi di Oslo mostra che esiste un ottimo motivo per cui i palestinesi sono tanto più attaccati al processo di pace di quanto non lo siano alla pace in se stessa: il processo è redditizio, mentre la pace può costare cara. In altre parole, i palestinesi (quelli affiliati all’Olp) sfruttano appieno il loro status di derelitti bisognosi di aiuti, beniamini delle Nazioni Unite, dell’occidente e dei paesi donatori, ricavando incessantemente sempre nuove risorse finanziarie e d’altro genere. In effetti un paese come il Kosovo potrebbe cancellare almeno metà del suo tasso di disoccupazione se ricevesse anche solo una frazione dei fondi che vengono donati da anni ai palestinesi. Sì, il Kosovo può solo invidiare il modo imbarazzante con cui Abu Mazen e Abed Rabbo vengono coccolati, fra una dichiarazione d’indipendenza e l’altra.
Una terza ragione riguarda il cuore stesso del problema palestinese. I palestinesi possono continuare a dire finché vogliono che la nascita del loro stato indipendente è impedita dalla mancata risoluzione delle questioni di fondo. Che continuino pure a illudere se stessi e i loro fan: in realtà, anche coloro che sono impegnati nei colloqui con loro sanno che l’Autorità Palestinese non sarà mai in grado di liberarsi dell’immagine di stato fallimentare che si è degnamente guadagnata. In base a qualunque standard internazionale uno dei più chiari indicatori di uno stato fallimentare è il terrorismo, e coloro che attualmente vezzeggiano i palestinesi con denaro corrotto ne sono responsabili.
I semi del fallimento dello stato palestinese vennero gettati dal peccato originale commesso dall’occidente quando permise all’Olp il privilegio senza precedenti di continuare ad essere contemporaneamente un’entità statale legittima e un gruppo terrorista.
Una trappola in cui è caduto anche Israele. Non meraviglia a questo punto che il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni annunci che “i negoziati con Abu Mazen continueranno anche se il terrorismo continua”. La Livni ha ragione, giacché si riferisce al terrorismo di Hamas. Ma le tutte informazioni di intelligence confermano che le Brigate al-Aqsa, affiliate al Fatah di Abu Mazen, non sono da meno di Khaled Mashaal e dei suoi terroristi di Hamas. Come si addice a uno stato terrorista, la cooperazione più stretta e più efficace che ha luogo in questi giorni fra i palestinesi è quella tra gruppi terroristi rivali.
In passato una dichiarazione come quella di Abed Rabbo sarebbe stata il frutto di una mossa tattica ben pianificata: un segnale al mondo arabo e occidentale che i colloqui con Israele sono bloccati e che bisogna fare pressione su Israele per costringerlo a maggiori concessioni sulle questioni fondamentali. Oggi quella stessa dichiarazione non è molto più che un patetico trucchetto mediatico. In passato, dopo una dichiarazione del genere, tanti leader occidentali si sarebbero precipitati nei territori palestinesi a manifestare solidarietà. Oggi se ne stanno a casa. Li possiamo capire: si sono stancati di recarsi in visita ufficiale nella micro-enclave governativa di Ramallah.

(Da: YnetNews, 22.02.08)

Nella foto in alto: Yasser Abed Rabbo, consigliere politico del presidente del Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)