L’ennesima battaglia della guerra d’indipendenza

Dagli sproloqui di Abu Mazen alle minacce di Hamas, fino al kibbutz Nahal Oz costretto a valutare se sgomberare i civili

Di Daniel Gordis

Daniel Gordis, autore di questo articolo

In una settimana zeppa di notizie da prima pagina (l’ambasciata americana a Gerusalemme, i violenti scontri al confine di Gaza, persino la vittoria della cantante israeliana all’Eurovision), anche ai lettori più attenti può essere sfuggito un dettaglio relativo ai timori di Israele alla vigilia degli annunciati assalti al confine di Gaza. Dato che Hamas aveva avvertito che i palestinesi avrebbero sfondato la recinzione, fatto irruzione in territorio isareliano e “messo fine al progetto sionista”, gli israeliani che vivono nei pressi di quel confine avevano concretissimi motivi di preoccupazione. “Almeno una delle comunità più vicine al confine, il kibbutz Nahal Oz – si leggeva in quei giorni in un articolo – ha considerato la possibilità, come forma di precauzione, di sgomberare i residenti prima delle sommosse, stando a quanto riferito dalla portavoce Yael Raz-Lahiani”.

Per apprezzare appieno quanto suonasse agghiacciante questa notizia apparentemente marginale, bisogna tornare alla storia di Israele sia del 1956 che del 1948. Due elementi di quella notizia meritano attenzione. In primo luogo il kibbutz Nahal Oz: un luogo che la tragedia che ha inciso nella memoria collettiva israeliana. Il 29 aprile 1956, il ventunenne Roi Rotberg stava pattugliando a cavallo i campi di Nahal Oz, dove viveva. Abituato a vedere gli abitanti di Gaza (allora sotto occupazione egiziana) rubare i raccolti del kibbutz, quando vide un gruppo di arabi nei suoi campi Rotberg si diresse verso di loro per farli andare via. Ma era una trappola. Quando Rotberg si avvicinò a quelli che credeva contadini, questi gli spararono e lo uccisero, e poi trascinarono il suo corpo a Gaza dove venne orrendamente mutilato.

Aprile 1956: l’allora capo di stato maggiore israeliano Moshe Dayan legge il discorso funebre per Roi Rotberg, il membro del kibbutz Nahal Oz ucciso nei pressi della striscia di Gaza (allora sotto occupazione egiziana)

Per combinazione, l’allora capo di stato maggiore Moshe Dayan aveva incontrato Rotberg pochi giorni prima. Dayan partecipò ai funerali del giovane e vi pronunciò un discorso funebre destinato a diventare la più classica dichiarazione di Dayan – e poi di molti israeliani – sulla inevitabilità di un lungo e gravoso conflitto tra Israele e i suoi vicini. “Non c’è da meravigliarsi per il risentimento e la violenza degli arabi – disse Dayan – Da otto anni sono bloccati nei campi profughi di Gaza [sotto controllo egiziano], e vedono davanti ai loro occhi come in questi anni abbiamo trasformato le terre e i villaggi ora di nostra proprietà”. Ma se la semplice sopravvivenza di Israele doveva suscitare la rabbia araba, allora – avvertiva Dayan – gli israeliani dovevano prepararsi a vivere con la spada in pugno. “Non dobbiamo temere di guardare in faccia l’odio che consuma e riempie le vite di migliaia di arabi che vivono intorno a noi – disse – Non distogliamo lo sguardo, affinché non abbia a indebolirsi il braccio. Questo è il destino toccato in sorte alla nostra generazione. E questa è la nostra decisione: essere sempre pronti e armati, forti e determinati, affinché la spada non cada dalla nostra mano e le nostre vite non vengano recise”. A più di sessant’anni di distanza, le parole di Dayan suonano ancora vere, e non solo per Nahal Oz ma per tutto lo stato ebraico. Affrontare quel pozzo di odio senza fondo è stato il destino non solo della generazione di Dayan, ma anche delle successive. Nei decenni seguiti al 1956, Israele è cambiato e si è sviluppato più di quanto chiunque allora avrebbe osato pensare. Gaza invece no, giacché è l’odio, ancor più della speranza in un futuro migliore, ciò che anima le vite di coloro che vi abitano: l’odio che alimenta l’intramontabile volontà di distruggere lo stato ebraico, più che di costruirne uno nuovo acanto ad esso.

Kibbutz Nahal Oz: ragazzini israeliani nei pressi di un muro di cemento colorato anti-cecchini e anti-razzi da Gaza

Se questa costante non fosse già abbastanza spaventosa, c’è poi l’orribile eco degli sgomberi già fatti nella storia di Israele. Nel maggio 1948, quando apparve chiaro che i combattenti ebrei che difendevano i villaggi del blocco di Etzion (poco a sud di Gerusalemme) non avrebbero più potuto resistere agli attacchi delle forze d’invasione della Legione Araba, donne e bambini vennero evacuati. Alla fine il blocco cadde, giusto un giorno prima dell’indipendenza. Gli uomini che lo difendevano si arresero, dopo di che quindici di loro vennero trucidati dai vittoriosi combattenti arabi.

Nahal Oz non cadrà nelle mani di Hamas, e Israele non abbandonerà un centimetro di terra di fronte a questa nuova ondata di terrorismo. Ma il fatto stesso che si sia contemplata la possibilità di uno sgombero di civili, e proprio dal kibbutz Nahal Oz, dovrebbe servire a ricordare che Israele sta ancora combattendo la stessa guerra che combatteva nel 1948: per il riconoscimento del suo puro e semplice diritto di esistere. Anche se oggi è tanto di moda affermare che il conflitto tra Israele e palestinesi verte sulle terre conquistate da Israele nel 1967, in realtà ciò è falso. Vuoi per lo scellerato discorso di Abu Mazen del mese scorso, in cui ha affermato che la Shoà non è stata causata dall’antisemitismo ma del comportamento antisociale degli ebrei e ha negato che gli ebrei abbiano qualunque legame con la Terra d’Israele, vuoi per i proclami di Hamas delle scorse settimane, secondo cui nel giorno della Nakba sarebbe iniziata la “catastrofe dell’impresa sionista”, e i timori delle Forze di Difesa israeliane che masse di fanatici palestinesi potessero varcare il confine e darsi al massacro di tutti i civili israeliani che fossero riusciti a raggiungere, in ogni caso questi primi mesi del 2018 offrono una atroce conferma della battaglia che Israele sta conducendo da oltre settant’anni. Ciò a cui abbiamo assistito ai confini fra Gaza e Israele non è stato solo un cinico sacrificio di vite umane palestinesi usate dai terroristi per distrarre l’attenzione dall’abissale fallimento del governo di Gaza. Ciò che abbiamo visto, e che tristemente continueremo con ogni probabilità a vedere per il futuro prevedibile, non è stata altro che l’ennesima battaglia della guerra d’indipendenza d’Israele, e la sua necessità senza fine di difendere il proprio stesso diritto di esistere.

(Da: Jerusalem Post, 16.5.18)