L’eterno “giorno della marmotta” delle elezioni israeliane

Una riforma del sistema di voto potrebbe forse produrre un governo ampio e stabile, ma per varare la riforma ci vorrebbe un governo stabile e ampio

Di Lahav Harkov

Lahav Harkov, autrice di questo articolo

Con il quarto voto in meno di due anni che sembra sortire un risultato inconcludente, Israele potrebbe già incamminarsi verso una quinta tornata elettorale.

E’ vero che sembrano esserci fragili condizioni politiche perché, con una difficile trattativa, il primo ministro Benjamin Netanyahu riesca a farsi confermare, così come si può intravedere uno scenario alternativo che vedrebbe qualcun altro prendere il suo posto, sempre attraverso un negoziato tormentato. Ma se tutti gli eletti manterranno gli impegni e i veti preannunciati, e se nessuno di essi si staccherà dal proprio gruppo per passare a un altro, Israele rischia seriamente di tornare alle urne entro la fine dell’anno.

Nel film Ricomincio da capo, il personaggio di Bill Murray viene finalmente liberato dal ripetere continuamente lo stesso “giorno della marmotta” solo quando imprime un profondo cambiamento a se stesso. Forse Israele può uscire dal suo continuo ciclo elettorale riformando il proprio sistema. Quando in Israele si parla di riforma elettorale ci sono proposte di profondi cambiamenti sistemici, e poi ci sono piccole soluzioni rapide che alcuni partiti perseguono nel tentativo di ostacolare un reincarico di Netanyahu.

Il ciclo continuo delle elezioni israeliane, in una vignetta di Shlomo Cohen

Dopo le precedenti elezioni (del 2 marzo 2020) Blu-Bianco, che all’epoca comprendeva anche Yesh Atid, spodestò l’allora presidente della Knesset Yuli Edelstein con l’intento di promuovere tre disegni di legge destinati ad eliminare gli escamotage legali utilizzati da Netanyahu. Gli emendamenti alla Legge fondamentale “Il Governo” avrebbero previsto le dimissioni del primo ministro immediatamente dopo un’eventuale incriminazione per presunti reati di condotta immorale; il divieto di diventare primo ministro, ministro, viceministro o sindaco per chiunque abbia subito condanna per un reato di condotta immorale; l’imposizione del limite di due mandati consecutivi come primo ministro fino a un massimo di otto anni. Netanyahu è stato primo ministro per oltre 15 anni, 12 dei quali consecutivi. Se il risultato finale delle elezioni di martedì vedrà in maggioranza quello che si è auto-definito “il blocco del cambiamento” (cioè gli oppositori di Netanyahu di destra, di centro e di sinistra), è possibile che tale blocco, quand’anche non riesca a varare un governo, riesca però a insediare un presidente della Knesset che renda la vita difficile a Netanyahu mettendo in agenda quelle leggi di riforma. Resta comunque da vedere se vi sarebbero poi i numeri per farle approvare.

Quei cambiamenti, in ogni caso, non costituirebbero una vera una riforma del sistema elettorale. Sono “trucchi politici per impedire a Netanyahu di formare una coalizione” afferma Emmanuel Navon, del Kohelet Policy Forum. Una vera riforma elettorale andrebbe più in profondità nell’affrontare i nodi centrali del sistema di voto e di governo israeliano. Secondo il presidente dell’Israel Democracy Institute, Yohanan Plesner, “una riforma elettorale è assolutamente necessaria: ora lo capiscono non solo politologi e appassionati di politica, ma tutti gli attori del sistema politico e l’opinione pubblica in generale”. Mercoledì, in una conferenza stampa, Plesner ha sostenuto che il “fattore Netanyahu” ha messo a nudo le debolezze preesistenti del sistema israeliano.

Dal canto suo Danny Danon, ex ambasciatore d’Israele all’Onu e presidente di Likud Mondiale,  invoca due modifiche. In primo luogo l’innalzamento della soglia d’ingresso alla Knesset, che oggi è al 3,25%. “Così non dipenderemo più dai piccoli partiti – ha detto Danon – Basta guardare al partito Ra’am: poche centinaia di voti stanno determinando le sorti del paese. Questo distorce la volontà dell’elettore”. La seconda riforma suggerita da Danon, raccomandata anche dall’Israel Democracy Institute, è che al leader del partito di maggioranza relativa venga automaticamente assegnato il compito di formare il governo. Questo semplificherebbe il processo di costruzione della coalizione e, secondo alcuni, spingerebbe molti elettori a concentrare il voto su pochi grandi partiti.

Protagonisti delle elezioni israeliane del 23 marzo 2021. Fila in alto, da sinistra: Itamar Ben Gvir (Otzma Yehudit, che fa parte di Sionismo Religioso), Bezalel Smotrich (Sionismo Religioso), Naftali Bennett (Yamina), Aryeh Deri (Shas), Moshe Gafni (Ebraismo Unito della Torà). Fila centrale: Avigdor Liberman (Yisrael Beytenu), Gideon Sa’ar (Nuova Speranza), Benjamin Netanyahu (Likud), Yair Lapid (Yesh Atid), Merav Michaeli (Laburisti). Fila in basso: Benny Gantz (Blu-Bianco), Nitzan Horowitz (Meretz), Ayman Odeh (Lista araba Congiunta), Mansour Abbas (Ra’am), Yaron Zelekha (partito Nuova Economia)

Secondo Navon, tuttavia, sebbene importante una riforma elettorale non risolverebbe l’attuale problema di Israele. “La crisi non è legata al sistema: funziona da 72 anni e prima d’ora non si era mai verificata una situazione come questa”, sottolinea. Il problema, secondo Navon, è che “Netanyahu tiene in ostaggio il paese. Negli ultimi due anni c’è stata una chiara maggioranza per la destra, ma non per Netanyahu: il punto è tutto qui”. Il sistema parlamentare proporzionale d’Israele è il più diffuso fra le democrazie di tutto il mondo, osserva Navon, e in effetti le passate riforme elettorali avevano solo peggiorato il quadro. Ad esempio, l’elezione diretta del primo ministro su una scheda separata (nelle elezioni 1996, 1999, 2001) rese il governo meno stabile perché gli elettori utilizzarono il voto disgiunto per premiare partiti minori, col risultato di indebolire il premier del partito principale. La riforma venne abrogata dopo le elezioni del 2001.

L’altra riforma che non convince Navon è l’innalzamento del quorum. “La gente pensa che aumentare la soglia migliori la stabilità, ma è vero il contrario e si è visto in Israele” dove la soglia è stata progressivamente innalzata dall’1% del 1988 al 3,25% di oggi. “Quando non vige un sistema maggioritario con due partiti dominanti, più partiti ci sono più è facile formare una coalizione perché si hanno più opzioni”. Navon suggerisce piuttosto di aumentare la responsabilizzazione dei parlamentari facendoli eleggere personalmente, e non come semplici numeri su una lista di partito preconfezionata. Due i modi per farlo. Innanzitutto, la metà dei parlamentari potrebbe essere eletta in collegi elettorali con meccanismo maggioritario. Inoltre, si potrebbe permettere all’elettore di esprimere una o più preferenze fra i candidati di una lista, anziché lasciare al partito la decisione dell’ordine di lista da cui dipende chi passa e chi non passa.

Gli esperti non sono concordi sulla questione se una riforma elettorale porrebbe finalmente termine al ciclo delle elezioni reiterate, ma sono tutti d’accordo sul fatto che le attuali circostanze politiche difficilmente permetteranno una tale riforma. Spiega Plesner che “la riforma elettorale è il rimedio, ma può essere attuata solo se si forma un governo che l’abbia in agenda. “Abbiamo bisogno di una riforma elettorale per ristabilizzare il sistema e ripristinare la sua capacità di conseguire risultati – dice Plesner – ma ciò non può accadere con un governo ristretto: occorrerebbe una sorta di ampia coalizione”. Cioè un governo stabile e capace di attuare riforme. Praticamente, un comma 22. E Israele resta intrappolato nel suo ciclico “giorno della marmotta”.

(Da: Jerusalem Post, 24.3.21)