Lettera aperta di un israeliano ad Abu Mazen

Lei, Abu Mazen, non è Yasser Arafat.

Di Amotz Asa-El

image_1123Lei, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), non è Yasser Arafat.
Innanzitutto Lei merita il nostro rispetto, nella sua qualità di profugo autentico le cui origini affondano chiaramente in questa triste terra che lei dovette lasciare nel 1948, all’età di 13 anni, non per sua colpa né per sua scelta. In tempi in cui la figura del profugo è stata abitualmente impersonata da simulatori come Arafat o Edward Said, e abusata da una quantità di regimi arabi, gli israeliani di buona volontà sanno riconoscere un vero profugo, e rispettarne la causa.
Lei non è Arafat anche perché la Sua carriera è stata assai meno violenta. Arafat non ha mai fatto cose come insegnare in una scuola elementare, come fece Lei in Siria a vent’anni. E non risulta che Lei abbia personalmente scatenato battaglie, come fece Arafat negli anni ’70 in Giordania e negli anni ’80 in Libano, prima di finire la sua vita fisicamente e metaforicamente confinato nel bunker di Ramallah, quello dove Lei tentò, per ora senza successo, di far voltar pagina alla storia della Sua gente.
Lei ha trascorso anni nelle aule accademiche della Mosca comunista, dove alla fine ha steso una tesi che Le permise di ottenere colà il dottorato. Arafat non si è mai dedicato né ha mai apprezzato questo genere di fatiche, preferendo piuttosto dedicarsi a creare casini. Lei è noto, in generale, per essersi sottratto a questa ingloriosa parte della lotta per la causa palestinese, nonostante la notevole eccezione, a quanto si dice, d’aver contribuito a finanziare la strage di Monaco del 1972. Semmai, come capo del Dipartimento Relazioni Internazionai di Fatah, Lei è stato uomo degli ovattati corridoi della diplomazia.
Ecco perché, in evidente contrasto con le grottesche uniformi alla Fidel Castro di Arafat, Lei si è sempre presentato in giacca e cravatta.
A un livello più sostanziale, Lei è la persona che, rivolgendosi in arabo alla Sua gente, pronunciò le magiche parole “no alla violenza”, alla faccia di un incollerito Arafat: un gesto coraggioso che persino Ariel Sharon fu costretto ad ammirare, a maggior ragione quando Lei a quelle parole si attenne anche se a causa loro Arafat la destituì da primo ministro.
In breve, Lei iniziò davvero ad assomigliare alla tanto attesa ventata d’aria nuova in questo nostro conflitto.
E dopo? Cos’è che è andato storto?
Purtroppo il fattore più importante che ha determinato il Suo insuccesso non ha tanto a che fare con la direzione verso cui Lei si muoveva quanto con l’esperienza da cui Lei proveniva. Lei era troppo diplomatico e troppo poco guerriero. Nonostante alcune eccezioni (viene in mente Thomas Jefferson), raramente i diplomatici si traducono in leader carismatici, men che meno in leader capaci di fronteggiare bande violente e spingerle a deporre le armi.
Anche Israele fu guidato, una volta, da un diplomatico. Si chiamava Moshe Sharett, e la sua contrarietà ai raid dei commando guidati da un giovane ufficiale di nome Ariel Sharon e ai grandi disegni militari di un dirigente della difesa di nome Shimon Peres lo rese, se mi passa il termine, politicamente irrilevante. Dopo neanche due anni al vertice, venne messo ai margini, per finire col non contare più nulla. Se fosse ancora qui, Sharett Le direbbe che, quando le folle danzano ubriache attorno a vitelli d’oro, non serve l’eloquenza degli Aronne: ciò che occorre è la determinazione che hanno solo leader intrepidi come i Mosè, o ferrei come i Ben-Gurion.
E tuttavia il problema non sta solo nel Suo temperamento. Sta anche nel Suo pensiero e nei Suoi atti.
Nel Suo pensiero, giacché Lei sbagliò sventuratamente quando pensò che bastasse dire alla Sua gente che uccidere israeliani “non serve agli interessi strategici palestinesi”. L’israeliano della strada si è subito chiesto: se invece uccidere bambini ebrei nelle braccia delle loro madri servisse ai vostri obiettivi strategici, allora andrebbe bene? Non ci vuole un arabista per capire che nelle Sue parole, e certamente nel modo in cui vennero intese dai palestinesi della strada, il nostro sangue poteva continuare a scorrere. Le Sue parole, caro Abu Mazen, erano meglio di quelle dei Suoi predecessori, ma erano ancora ben lontane da ciò che occorre dichiarare apertamente, se non per la fine del conflitto almeno per ottenere il rispetto della propria stessa gente.
Più grave di ciò che Lei ha detto, però, fu ciò che Lei fece. Anzi, che non fece. Quando si approssimava il nostro ritiro da Gaza, Lei aveva tutto il mondo ai Suoi piedi. Tutti, dall’America all’Europa al Giappone alla Cina alla Russia al Canada, avrebbero fatto a gara per venire a Gaza per aiutarvi a farne un’oasi di sviluppo. Ed era possibile. Con un bel litorale, importanti porti marittimi a due passi e uno potenziale tutto vostro, non c’erano limiti ai possibili progetti. Invece, nelle Sue frequenti visite all’estero, Lei impiegò tutte le energie per accusare Israele di questo e di quello e quant’altro, senza fare nulla per costruire anche una sola fabbrica, o un centro commerciale, o una banca, un ritrovo turistico, un albergo, neanche un chiosco da spiaggia nella vostra terra appena liberata.
In altre parole, così come non ha saputo affrontare Hamas sul campo di battaglia, e così come non l’ha nemmeno mai rimbrottata per quel suo celebrare apertamente le stragi, allo stesso modo Lei non ha mai dimostrato di preoccuparsi, più di Hamas, di generare vita anziché morte. Con questo genere di non-precedenti, si capisce come non si sia ritrovato nulla in mano per convincere la Sua gente a non votare per Hamas.
Lo Stato ebraico, caro Abu Mazen, impiega migliaia di persone e spende miliardi nel continuo sforzo di capire gli arabi. Verrà un giorno in cui la Sua gente cercherà con altrettanto impegno di capire noi. E quando arriverà quel giorno, mi auguro che Lei sarà ancora in tempo per considerare il fatto che in quella stessa città di Safed dove Lei è nato e cresciuto, secoli prima di Lei visse un mistico ebreo chiamato Yitzhak Luria, meglio conosciuto con l’acronimo Ari (leone). Anch’egli operò all’interno di una cerchia che aveva subito un grande trauma da sfollamento: l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, dove avevano vissuto per più di mille anni. La conclusione, nella sua cerchia di persone, fu che il mondo aveva bisogno d’essere emendato. Alla fine molti ebrei finirono col dissentire, sostenendo che il mondo è troppo grande perché possa essere emendato da una sola nazione. Ma tutti convennero che per migliorare la propria disgraziata sorte un buon inizio è un bell’esame di coscienza.
Se Lei avesse parlato alla Sua gente in questo spirito, ricordando loro che gli ebrei non sono venuti qui per scacciare nessuno, che gli ebrei appartengono a questo luogo almeno quanto chiunque altro, che lo sfollamento dei palestinesi fu prima di tutti il risultato del loro stesso rifiuto della soluzione diplomatica e dell’aggressione perpetrata contro i sopravvissuti alla Shoà (quella Shoà che Lei un tempo tentò di negare o minimizzare), allora la Sua gente avrebbe almeno iniziato a capire la propria tragedia, a guardare al futuro, e a rispettare Lei come suo leader.

(Da: Jerusalem Post, 6.03.06)