L’impasse d’Israele

Regolarizzare non è rubare, ma la nuova legge mette solo cerotti senza esprimere una visione di prospettiva

Di Yoaz Hendel

Yoaz Hendel, autore di questo articolo

Il cosiddetto “muro del trentesimo chilometro” è un fenomeno ben noto a chiunque abbia mai provato a correre una maratona. A un certo punto il corpo perde energia e la mente non vuole continuare. Ciò che di solito permette ai corridori amatoriali di andare avanti è il fatto di sapere a che punto sono, quanto rimane da correre e dov’è la meta. Il muro è tutto nella testa, ma il suo effetto diretto è sulle gambe.

Il governo israeliano di destra è ora di fronte a un suo muro psicologico. Non ci sono recalcitranti alleati di coalizione a cui dare la colpa. Ci sono solo irrisolti nodi interni. La folle saga sulla legge per la regolarizzazione delle case irregolari in Cisgiordania, sia sul palco che dietro le quinte, ne è la dimostrazione.

A differenza di quello che dicono i titoli deliberatamente scelti da tanta stampa internazionale e dallo stesso Ha’aretz, non è affatto vero che la nuova legge “ruba terre” ai palestinesi. Essa è anzi moralmente logica e ragionevole. Le persone che si stabiliscono accidentalmente su un terreno privato pagano il danno ai proprietari originali. E’ così che succede nella maggior parte dei sistemi giuridici in tutto il mondo, è così che succede all’interno di Israele e lo stesso vale per quanto riguarda gli ebrei di Giudea e Samaria che si sono erroneamente appropriati delle terre su cui vivono. La regolarizzazione non è un furto, è un logico compromesso.

2008: israeliani sgomberati da una casa irregolare alle porte di Hebron

Il punto è che logica e ragionevolezza giuridica non superano la linea verde fra stato d’Israele e Cisgiordania. E’ Israele che non ha mai esteso le sue leggi su quell’area (perché contesa, o “occupata” secondo il resto del mondo), è Israele che ha espresso un crudo messaggio circa quei territori ed è Israele che si trova a mettere cerotti sulle ferite locali sotto forma della legge per la regolarizzazione.

Circa due settimane fa, aprendo la riunione di governo il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato della sua disponibilità ad accettare uno stato per i palestinesi, sebbene “limitato”. Al di là di una breve discussione del ministro Ofir Akunis (del Likud) che ha contestato il concetto di stato sui mass-media, nessuno in Israele ha mostrato grande interesse per il significato della dichiarazione di Netanyahu. La maggior parte degli israeliani è convinta che Netanyahu stia bluffando, giacché comunque i palestinesi sono i primi a non voler negoziare la nascita del loro stato a fianco di Israele.

A differenza degli israeliani, i giornalisti stranieri hanno preso quei commenti molto sul serio. La stessa sera ricevevo messaggi da diversi colleghi americani che mi chiedevano di parlare di questa nuova prospettiva per il Medio Oriente. Ponevano un sacco di domande, e io avevo ben poche risposte.

Case ebraiche a Pnei Kedem, a sud di Betlemme, in Giudea

Ho spiegato loro che Israele sostiene e rafforza l’Autorità Palestinese nonostante le sue continue prese di posizione contro di noi. Siamo noi che trasferiamo loro denaro e rafforziamo le loro infrastrutture. Ho spiegato che il territorio già da tempo sotto completa giurisdizione palestinese è circa il 40% della Cisgiordania e non ci vive un solo ebreo. Ho rispiegato il motivo per cui i grandi blocchi di insediamenti a ridosso della ex linea armistiziale e la Valle del Giordano sono comunque esclusi da ogni possibile scenario negoziato da Israele. E alla fine ho sostenuto che se Netanyahu voleva indicare qualcosa di concreto, si tratta di qualcosa che sta più vicino alla realtà sul terreno che non al campo dei discorsi generali come quello che fece all’Università Bar-Ilan nel 2009. Tutto ciò per dire in modo un po’ contorto che non avevo idea di quale scenario intendesse indicare Netanyahu.

Netanyahu era sostanzialmente contrario alla legge per la regolarizzazione, ma l’ha ugualmente sostenuta. Il ministro della difesa Avigdor Lieberman (di Yisrael Beytenu) ha detto di essere contrario e che comunque verrà bocciata dalla Corte Suprema, ma ha anche dichiarato fin dall’inizio che avrebbe votato a favore. Il Procuratore generale ha annunciato che non potrà difenderla davanti alla Corte Suprema. Ma allora perché la legge è arrivata sul tavolo? Per la mancanza di una visione coerente.

La città israeliana di Ariel, in Samaria

Negli anni ‘90 i residenti israeliani della città di Ariel (in Samaria) protestarono con i mass-media chiedendo che le trasmissioni meteo comprendessero anche i dati rilevati su un’altura della loro zona o comunque nel distretto della loro città. Il vero scopo della protesta non era il meteo, era ottenere che i programmi di news mostrassero anche la Samaria e che il meteorologo pronunciasse il nome di “Ariel”. Era un battaglia per sentirsi normali, a pari titolo di tutti gli altri.

Molto tempo è passato da allora. Le previsioni dei rischi fatte dalla destra israeliana circa concessioni e ritiri ha da tempo travolto le visioni utopistiche della sinistra. Gli arabi si sono incaricati di confermarle. Ma non c’è alcuna normalizzazione, e la legge per la regolarizzazione delle case irregolari non porta in quella direzione quand’anche risolvesse il problema di cento o mille abitazioni.

Manca una chiara prospettiva da parte israeliana, e questo dipende dal fatto che negli ultimi dieci anni non c’è stato nessun dibattito governativo sul futuro di Giudea e Samaria. E’ incredibile, se si pensa alla quantità di tempo dedicato a discutere una piccola comunità come Amona o nove case irregolari a Ofra. Decine di ore di discussione, ma non una volta che il governo o il gabinetto di sicurezza si siano seduti a discutere e deliberare su quale obiettivo persegua Israele in Giudea e Samaria, quale meta si dà, come superare il muro psicologico.

La sinistra israeliana esagera strumentalmente le deficienze della nuova legge e i suoi effetti. I ricorsi al tribunale dell’Aja non sono ciò che infiamma il dibattito politico in Israele. La cosa che conta non sono gli eventuali danni collaterali. Quello che preoccupa è non sapere a cosa puntiamo.

(Da: YnetNews, 8.2.17)