L’insopportabile furto della sofferta storia delle (vere) popolazioni autoctone

Quando qualcuno paragona la propria esperienza a quella dei nativi nordamericani lo fa quasi sempre per demonizzare un altro paese

Di Ryan Bellerose

L’autore di questo articolo Ryan Bellerose, dell’insediamento Paddle Prairie Metis (Northern Alberta, Canada), è da anni impegnato nella lotta per i diritti umani

L’autore di questo articolo Ryan Bellerose, dell’insediamento Paddle Prairie Metis (Northern Alberta, Canada), è da anni impegnato nella lotta per i diritti umani

Desidero spiegarvi come mai sono così arrabbiato. Vedo continuamente attorno a me gente che sostiene di condividere la stessa sorte del mio popolo. Mi dicono “la storia del mio popolo è come quella del tuo”, ma la realtà è ben diversa. Mi dicono “abbiamo avuto esperienze simili alle vostre”, quando la realtà è che non hanno subito neanche lontanamente l’emarginazione, l’oppressione e l’annichilimento a cui il mio popolo è riuscito in qualche modo a sopravvivere.

Quando qualcuno invoca le esperienze dei nativi nordamericani per sostenere d’avere una storia comune alla nostra, lo fa quasi sempre in modo disonesto al solo scopo di demonizzare un altro paese. Nella maggior parte dei casi che mi capita di vedere, si tratta di arabi e di bianchi che cercano di demonizzare Israele: innanzitutto definendo “colonizzatori” gli israeliani; e poi facendo intendere che gli ebrei abbiano rubato la terra su cui hanno costruito il loro stato.

L’assurdità della cosa dovrebbe essere evidente.

Quello che ho appreso con anni di studio è che se c’è una popolazione in tutto il mondo che può legittimamente rivendicare un’esperienza storica comune alla nostra, ebbene non può essere quella composta dai discendenti dei conquistatori arrivati nel VII secolo e che hanno dominato per centinaia di anni fino al secolo scorso, quando il ciclo si è invertito. Gli arabi musulmani che dominarono la regione dopo averla conquistata sono la cosa più lontana possibile dalla mia gente.

Una manifestazione di palestinesi vestiti da pellerossa

Piuttosto qui il nostro senso di fraternità va a quel popolo che di recente ha subito un autentico genocidio, e che tuttavia è riuscito a mantenere la propria integrità culturale. Quel popolo è la nazione ebraica. Non lo dico con leggerezza, ma dopo anni di ricerche, di conversazioni, di ascolto dei sopravvissuti sia della Shoà che delle cosiddette residential schools per indiani (quelle dove Sonny, il padre di mio padre, veniva picchiato a sangue e gli veniva chiusa la lingua in una trappola per topi quando osava parlare la lingua Cree). Non si tratta di paragonare delle tragedie, né certo di metterle in competizione. Si tratta piuttosto dell’empatia e della comprensione che nascono da un’esperienza condivisa.

Vi chiederete come mai mi offende tanto la pretesa di comunanza da parte di quegli arabi musulmani che si fanno chiamare palestinesi: dopotutto sono un popolo di sfollati, o no? Ebbene mi urta per diversi motivi, ma quello più importante è che sminuiscono e banalizzano l’esperienza della mia stessa gente. La mia gente è stata uccisa a milioni, è stata violentemente costretta ad adottare la religione, le tradizioni e la lingua della cultura dominante, e a questo scopo è stata forzata nelle “scuole residenziali”, dove l’hanno fatta sentire inferiore anche solo per aver osato pensare di preservare la nostra cultura. I palestinesi non sono mai stati neanche lontanamente trattati da Israele con tale obbrobrio.

«Costretti ad adottare la religione, le tradizioni e la lingua della cultura dominante»

Gli arabi che si definiscono palestinesi non furono mai costretti ad adottare ad adottare un’altra lingua, né a convertirsi a una religione che non era la loro. Non esistono “scuole residenziali” che li obbligano a usare una lingua straniera e a praticare una religione aliena o tradizioni estranee. Per almeno tre volte venne offerta loro la possibilità di crearsi un proprio stato e ogni volta l’hanno rifiutata. È palesemente offensivo paragonare la loro esperienza alla storia del mio popolo, specialmente i Metis che per due volte si sono ribellati e per tre volte sono stati espulsi dalle loro terre.

Gli arabi che si definiscono palestinesi hanno ricevuto sempre soldi e armi, ultimamente dall’Iran e da altri sostenitori del terrorismo. Sono stati incoraggiati a uccidere civili indiscriminatamente chiamando questa pratica “resistenza”, ma la verità è che sono pedine che combattono una guerra contro Israele per conto del mondo arabo. Non sono combattenti per la libertà giacché combattono contro l’unico paese veramente libero di tutta la regione. Non mi credete? Provare a costruire una chiesa o una sinagoga nei territori dell’Autorità Palestinese.

E poi devo essermi perso il genocidio che hanno subito, se non altro perché mi è stato sempre insegnato che l’esito di un genocidio è la morte di tantissime persone, e che il drammatico calo di una popolazione (percepibile demograficamente anche dopo generazioni) è il segno più evidente e caratteristico del tentativo di sterminare un popolo. Certamente non un’esplosione demografica come quella che ha visto il passaggio da 750.000 profughi a una popolazione di più di 6 milioni di persone nella quale i discendenti di quelli originariamente sfollati continuano a definirsi, senza ombra di ironia, “profughi” e “vittime di un genocidio”.

L’indiano d’America all’israeliano: “Francamente terra in cambio di pace, per noi, non ha funzionato molto bene”

L’indiano d’America all’israeliano: “Francamente, per noi, terra in cambio di pace non ha funzionato molto bene”

Forse la mia percezione è limitata dal fatto che posso misurare questa vicenda sullo sfondo degli altri genocidi perpetrati dall’uomo nel corso della storia conosciuta, e quando lo faccio la classica narrazione palestinese non regge.

Il Canada, il paese in cui vivo e che pure gode di una grande reputazione, ha regole separate per i popoli autoctoni, i quali non hanno una loro vera rappresentanza nel sistema di governo e in parlamento, a differenza di Israele dove arabi ed ebrei siedono alla Knesset e sono presenti nel governo e nel sistema giudiziario. Quindi, di nuovo: perché dovrei permettere che le esperienze del mio popolo vengano usate per demonizzazione il primo stato moderno creato dalla popolazione nativa e governato dalla popolazione nativa nella sua patria ancestrale?

Non è lecito impossessarsi della storia di qualcun altro e minimizzare e banalizzare le sue sofferenze, mentre questo è esattamente ciò che fanno gli arabi che si paragonano a noi. Quando parlo con gli ebrei delle nostre esperienze sento empatia, e non paternalismo, per le esperienze che condividiamo. Noi non vogliamo e non accettiamo questa “solidarietà palestinese” il cui prezzo è il tradimento di un’altra nazione autoctona.

(Da: Times of Israel, 24.3.14)