L’intifada che non ha cambiato niente (a meno che non siate Abu Mazen)

L'ondata di violenze iniziata un anno fa è costata molte vite umane, ma l'unico che rischia sul piano strategico è il presidente palestinese

Di Avi Issacharoff

Avi Issacharoff, autore di questo articolo

Avi Issacharoff, autore di questo articolo

Sedici anni sono passati da quando scoppiò la seconda intifada, quell’“intifada delle stragi” che sotto molti aspetti distrusse le possibilità di pace e causò l’enorme tracollo della fiducia tra i popoli israeliano e palestinese. È passato un anno da quando è scoppiata l’“intifada di Gerusalemme”, come la chiama Hamas, o “dei coltelli o “dei lupi solitari” come la chiamano altri.

E’ difficile trovare un qualunque parallelo fra le decine di attentati suicidi, le sparatorie e le dimostrazioni violente ai “confini” fra Israele e Autorità Palestinese tipiche dell’intifada scoppiata nel settembre 2000, e quest’ultima intifada caratterizzata finora più che altro da attacchi individuali con veicoli o armi bianche ad opera di palestinesi giovani o giovanissimi che agiscono per conto proprio, senza alle spalle la struttura organizzata della seconda intifada. Forse è improprio persino usare lo stesso termine per entrambe.

A differenza della prima intifada, che generò un drastico cambiamento nei rapporti fra Autorità Palestinese e Israele e, dopo tre anni di attentati, il ridispiegamento delle Forze di Difesa israeliane in Cisgiordania, gli attacchi con auto e coltelli degli ultimi dodici mesi non hanno avuto un profondo effetto sui rapporti israelo-palestinesi. Certo, la fiducia già ridotta la minimo si è ulteriormente deteriorata, e con essa le possibilità di pace. Ma se cambiamenti significativi sono stati prodotti dall’intifada dei “lupi solitari”, questi si sono verificati all’interno della scena politica palestinese, con ben pochi effetti sui rapporti con Israele.

Naama e Eitam Henkin, uccisi nell’attentato terroristico di Hamas del primo ottobre 2015

Naama e Eitam Henkin, uccisi nell’attentato terroristico di Hamas del primo ottobre 2015, presso Itamar

I palestinesi, e in particolare i sostenitori di Hamas, datano l’inizio di quest’ultima ondata di violenze al primo ottobre 2015 con l’attentato in cui i terroristi di Hamas uccisero in una sparatoria Naama e Eitam Henkin, vicino alla comunità ebraica cisgiordana di Itamar. Da allora, 35 israeliani e quattro cittadini stranieri sono stati uccisi da aggressori palestinesi. Ma fu l’attacco che ebbe luogo due giorni dopo, nella città vecchia di Gerusalemme, quello che meglio rappresenta l’odierna “intifada”. Il 3 ottobre, un terrorista di nome Muhannad Halabi assassinò due israeliani, Aharon Banita e Nehemia Lavi, in quello che era iniziato come un attacco all’arma bianca. Poi Halabi si impadronì dell’arma di un ferito e iniziò a sparare, fino a quando i poliziotti non riuscirono a ucciderlo. Agli occhi dei palestinesi Halabi è diventato il primo “martire” della cosiddetta “intifada di Gerusalemme”, un eroe per gran parte del pubblico palestinese. Un mese dopo, a un presidio davanti all’Università al-Quds ad Abu Dis (sobborgo est di Gerusalemme), vidi centinaia di giovani palestinesi indossare con orgoglio la maglietta con l’immagine di Halabi.

In quest’ultima “intifada” sono state coinvolte diverse centinaia di palestinesi, da quelli uccisi o arrestati mentre compivano attentati a quelli che hanno preso parte a violente manifestazioni in loro sostegno. Eppure, a questa “intifada” la stragrande maggioranza del pubblico palestinese non ha preso parte. Le masse non sono scese per le strade, nemmeno nei giorni più tempestosi di ottobre e novembre 2015. E i rapporti tra Israele e Autorità Palestinese, a differenza della devastante seconda Intifada, non sono cambiati granché. La cooperazione sulla sicurezza è continuata e in qualche caso è persino migliorata. A parte alcuni casi rari, gli uomini in uniforme dell’Autorità Palestinese non hanno compiuto attacchi. Il delicato tessuto della cooperazione economica è rimasto pressoché intatto ed anzi, grazie a una serie di accordi su energia elettrica, poste, cellulari e gasdotti, in realtà è migliorato.

Un uomo ebreo porta un bambino ferito nell’attentato terroristico del 3 ottobre 2015 nella città vecchia di Gerusalemme

Un uomo porta un bambino ferito nell’attentato terroristico del 3 ottobre 2015, nella città vecchia di Gerusalemme

Gli sforzi di Hamas per alimentare le fiamme della violenza sono finora miseramente falliti. Ma Hamas ha comunque ottenuto una diversa vittoria, nella politica interna palestinese: è riuscita a far apparire ancora meno popolari, in Cisgiordania, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il suo partito Fatah. Secondo tutti i sondaggi condotti negli ultimi mesi, i residenti di Cisgiordania vorrebbero le dimissioni di Abu Mazen e un cambio di dirigenza. Non sorprende, in questo quadro, che le elezioni locali palestinesi fissato per ottobre siano state rinviate. Se si votasse oggi in Cisgiordania, tra Fatah e Hamas vincerebbe quest’ultima (mentre a Gaza accadrebbe probabilmente il contrario). Il consenso per Abu Mazen non è mai stato più basso, e in molti modi i funzionari di Fatah si stanno già preparando al dopo-Abu Mazen. E la partecipazione di Abu Mazen, venerdì scorso, ai funerali dell’ex presidente israeliano Shimon Peres non migliorerà di certo la sua posizione. Si è tirato addosso critiche di una durezza quasi senza precedenti, culminate con Mahmoud al-Zahar, uno dei capi di Hamas a Gaza, che gli ha augurato di morire e andare a far compagnia a Peres all’inferno: un’espressione piuttosto eccezionale persino nel contesto della implacabile inimicizia tra Hamas e Fatah. Abu Mazen ha parlato sabato a Betlemme promettendo che l’Autorità Palestinese si adopererà per ottenere la piena adesione alle Nazioni Unite, ma è apparso fiacco e spossato, e agli occhi del suo pubblico la promessa sembra fatta solo di chiacchiere.

Nel frattempo Hamas aspetta dietro le quinte, come fanno anche i rivali di Abu Mazen all’interno di Fatah, primo fra tutti Mohammad Dahlan. La scorsa settimana, Dahlan ha rinviato un evento per i suoi sostenitori al Cairo. Il governo egiziano aveva dato il proprio appoggio al raduno, un vero schiaffo ad Abu Mazen. L’Autorità Palestinese ha reagito impedendo alla moglie di Dahlan, Jalila, di entrare nella striscia di Gaza, e Abu Mazen ha destituito quattro membri di Fatah che sostengono Dahlan. Per Dahlan e altri in Fatah e Hamas queste mosse meschine contano poco. Per loro l’era di Abu Mazen è già finita, anche se la fine non è ancora ufficiale. L’intifada “dei coltelli” ha accelerato il processo. Le uniche domande ancora senza risposta sono quando si concluderà ufficialmente e, soprattutto, chi gli succederà.

(Da: Times of Israel, 2.10.16)