L’invenzione del profugo eterno ed ereditario è un’arma contro Israele

I palestinesi non possono dire che vogliono la pace e allo stesso tempo rivendicare il cosiddetto “diritto al ritorno”

Di Daniel Friedmann

Daniel Friedmann, autore di questo articolo

Circa 650.000 arabi abbandonarono il territorio dello stato di Israele durante la guerra d’indipendenza (1948). Alcuni furono espulsi dalle Forze di Difesa israeliane ma la maggior parte fu incoraggiata a farlo dai loro capi, o più semplicemente fuggì per paura (sapevano bene cosa accadeva agli ebrei che cadevano nelle mani delle bande arabe). Molti arabi comunque rimasero in Israele, alcuni di quelli fuggiti fecero ritorno e, in passato, Israele ha anche acconsentito a far tornare alcuni rifugiati. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica, la popolazione araba in Israele alla vigilia della scorsa Giornata dell’Indipendenza era composta da circa 1,85 milioni di persone (Gerusalemme inclusa), poco più del 20% del totale degli abitanti d’Israele.

Per quanto riguarda l’aspetto legale e morale del problema dei profughi, Israele ha dalla sua ottimi argomenti. Tutti gli ebrei sopravvissuti nelle aree conquistate dagli arabi durante la guerra del ‘48, come la Città Vecchia di Gerusalemme e le comunità di Gush Etzion, furono costretti a lasciare quelle aree che risultarono da quel momento judenfrei (“ripulite dalla presenza di ebrei”).

Nel frattempo, centinaia di migliaia di ebrei venivano cacciati dai paesi arabi dove vivevano da innumerevoli generazioni. Molti di loro vennero accolti in Israele e faticosamente integrati, per cui nessuno di loro è rimasto profugo in eterno. Va ricordato che, dopo la seconda guerra mondiale, i paesi dell’Europa orientale espulsero milioni di residenti di origine tedesca: un numero di persone che superava di gran lunga quello dei profughi arabi. Gli esuli vennero assorbiti come immigrati nei loro nuovi paesi e non divennero profughi eterni. La stessa cosa accadde nello stesso periodo quando, dopo la guerra indo-pakistana, milioni di persone divennero profughe e nel giro di alcuni anni vennero assorbite come immigrati nei luoghi di approdo (lo stesso si può dire dei 300mila italiani profughi da Istria e Dalmazia nel 1945-46).

Profughi ebrei dai paesi arabi, nella celebre foto scattata intorno al 1949 da Robert Capa (della Magnum) nel campo di transito di Sha’ar Ha’aliya, presso Haifa

I profughi arabi della guerra arabo-israeliana del ‘48 costituiscono un fenomeno unico. Tutti gli stati arabi in cui arrivarono (a parte la Giordania) hanno rifiutato di accoglierli, li hanno rinchiusi in campi profughi che ancora esistono (sebbene ovviamente non siano più fatti di tende) e hanno convinto le Nazioni Unite a creare un’agenzia apposita per questi profughi, l’Unrwa. Ciò ha portato alla creazione di un sistema in cui lo status di “profugo” è passato da una generazione all’altra producendo dei “profughi” che sono figli, nipoti e pronipoti dei veri profughi originari, e che ora si contano a milioni. Sono stati tutti allevati nell’odio verso Israele e indottrinati sul loro presunto diritto di “tornare” in case dove non hanno mai vissuto nemmeno un giorno della loro vita e che spesso semplicemente non esistono più. E’ così che, fra l’altro, la diaspora dei profughi palestinesi è diventata un bacino inesauribile di reclutamento per le organizzazioni terroristiche.

L’invenzione del “profugo eterno” e dello status di “profugo ereditario” che passa da una generazione all’altra aveva ovviamente lo scopo di tenere Israele sotto scacco continuo e di servire come un’arma per la sua delegittimazione e distruzione. Questi milioni di “profughi”, che hanno imparato sin dall’infanzia a credere di avere “diritto al ritorno” all’interno di Israele, e che si aspettano che ciò accada, sono diventati naturalmente un formidabile ostacolo alla pace. Per quanto riguarda Israele, si tratta di un problema vitale. Se questi “profughi” dovessero stabilirsi entro i suoi confini, ne deriverebbe la demolizione di Israele come stato nazionale ebraico. Per quanto riguarda i palestinesi, si tratta invece di una rivendicazione basilare diventata ormai irrinunciabile. Ciò li mette in contraddizione con se stessi: la dirigenza palestinese afferma di volere la pace (che comporta riconoscere il diritto di Israele di esistere), ma continua a sostenere il diritto al ritorno (che comporterebbe la demolizione di Israele). Per farla breve, la pace con Israele e il diritto al ritorno non possono convivere.

Negli Accordi di Oslo la questione dei “profughi” è stata lasciata irrisolta. La parte israeliana deve essersi illusa che i palestinesi avrebbero prima o poi rinunciato al “diritto al ritorno”, il che non è accaduto. Ci siamo chiesti spesso come mai Yasser Arafat rifiutò la proposta di pace di Ehud Barak (e di Bill Clinton) e perché in modo analogo Abu Mazen abbia declinato la proposta di Ehud Olmert. A mio avviso, la loro principale considerazione era la questione dei profughi. Non potevano firmare un accordo di pace, generoso quanto si vuole, che tuttavia chiedeva loro di rinunciare al “diritto al ritorno”.

Ora si parla di un accordo di pace regionale, che coinvolga anche gli stati arabi sunniti. Questa pace deve implicare una soluzione del problema dei “profughi” e una concessione sul “diritto al ritorno”. In questo processo graduale, Israele deve insistere innanzitutto su un insediamento dei “profughi” nei paesi arabi, dove devono ricevere tutti i diritti riconosciuti agli altri abitanti. Ciò richiederà incentivi economici sia per i “profughi” stessi che per i paesi d’accoglienza. Un reale progresso verso la pace sarà reso possibile da misure volte a creare fiducia in questa direzione, oltre a quelle per creare fiducia sul versante israeliano.

(Da: YnetNews, 12.6.17)

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