Lo scivolone della Turchia

Sembra una replica di ciò che accadde nel 1979 quando gli ayatollah presero il potere in Iran.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_3229Molti israeliani restano di nuovo scioccati ad ogni premeditato attacco della persistente escalation del premier turco Recep Tayyip Erdogan contro quelli che un tempo erano gli stretti rapporti fra Israele e Turchia. Le conseguenze sono severe non solo sul fronte diplomatico, ma anche sul piano economico, come ha sottolineato il governatore della Banca d’Israele Stanley Fischer. Colpiti in modo particolarmente duro sono i legami militari che una volta cementavano la “relazione speciale”.
Eppure, per quanto inquietante, nulla di tutto questo è inedito. In realtà gran parte di ciò a cui oggi assistiamo suona come un déjà vu: una replica di ciò che accadde nel 1979 quando gli ayatollah presero il potere in Iran. Fino ad allora, con l’Iran dello scià era fiorita una relazione persino più calorosa e più vantaggiosa. Ma crollò da un giorno all’altro, provocando molteplici danni altrettanto gravi di quelli causati in modo incrementale dalla serie di costanti colpi inferti dalla Turchia ai rapporti bilaterali.
Gli israeliani che lamentano la lenta fine della luna di miele con la Turchia dovrebbero ricordare che è da quasi un decennio che i rapporti non sono rose e fiori: esattamente da quando il partito islamista di Erdogan vinse le elezioni nel 2002. Quella vittoria segnò un mutamento strategico nell’agenda della Turchia e Israele poteva farci ben poco, a parte piegarsi ad ogni capriccio di Erdogan. Per quanto potessimo desiderare che la Turchia non si trasformasse in una causa persa come fu per Tehran, il precedente dell’Iran rimane istruttivo.
L’amicizia di Israele con Tehran si era rinsaldata per vent’anni. Gran parte della cooperazione militare passava sotto silenzio, ma era significativa. L’Iran era diventato il maggiore fornitore di petrolio di Israele in un’epoca in cui altre fonti non erano disponibili. Tutto questo evaporò nel giro di ventiquattro ore, ma Israele non venne messo in ginocchio. Per quanto importanti possano essere, le relazioni con un paese specifico non sono quasi mai indispensabili: un concetto che dovremmo tenere a mente oggi. Sarebbe stato senza dubbio molto meglio non perdere la connessione con la Turchia. Ma non è certo la fine del mondo, soprattutto in considerazione del fatto che nessuna iniziativa da parte israeliana avrebbe potuto fermare il deterioramento. È una cosa che sfugge al nostro controllo.
Erdogan è ambizioso e determinato, non meno di Mahmoud Ahmadinejad, indipendentemente dalla differenza di stile fra i due. Non cerca nemmeno di mascherare la sua aspirazione di riportare il suo paese ai giorni gloriosi del sultanato ottomano facendone la potenza chiave del Medio Oriente e del mondo islamico. Per promuovere questi obiettivi, Erdogan deve fare sfoggio di leadership dando addosso alla bestia nera del mondo arabo-islamico: Israele. Qualcosa che ricorsa da vicino lo slogan zarista con cui venivano istigati i pogrom: “Dagli all’ebreo, salva la Russia”.
Erdogan ha deciso di irritare Israele e più Israele ingoia le offese, più grandi si fanno le sue provocazioni. La sua mossa più recente è quella di creare agitazione con una provocatoria presenza navale turca non solo nel Mediterraneo, ma anche nel lontano Mar Rosso. Ironia della sorte, l’ha chiamata Operazione Barbarossa: lo stesso appellativo dato dai nazisti, durante la seconda guerra mondiale, all’invasione dell’Unione Sovietica.
In questo quadro, non si sfugge alla conclusione che Erdogan è diventato l’ennesimo bullo del Medio Oriente. La sua aggressività non è diretta soltanto contro Israele. Sotto la sua egida, la Turchia è riuscita a litigare praticamente con tutti i propri vicini, compreso l’Iran. Cipro è minacciata militarmente. Grecia, Bulgaria e Armenia stanno sul chi vive, e l’elenco potrebbe continuare. I più grandi fan di Erdogan sono i signorotti della guerra di Hamas a Gaza. Più Erdogan appare bellicoso verso Israele, più si assicura le credenziali di “intrepido musulmano”.
Ma il congelamento degli scambi commerciali con Israele nel campo della difesa e il declassamento dei rapporti diplomatici influenzeranno sicuramente commerci e scambi in ambito civile. La Turchia ci rimetterà altrettanto, e forse anche più di Israele. Con tutta evidenza Ankara si sta tirando la zappa sui piedi. Ha già perso il turismo israeliano. Ora le umiliazioni gratuitamente inflitte all’aeroporto a viaggiatori israeliani (patetico il tentativo di giustificarle con controlli di sicurezza quando nessun cittadino israeliano ha mai costituito una minaccia per la Turchia) non mancheranno di fermare anche gli uomini d’affari e di cancellare la Turchia dalle tappe di transito favorite.
Ma la Turchia scoprirà presto che si possono trovare alternative. Come Israele trovò il modo di sostituire il petrolio iraniano, così potrà trovare mercati sostitutivi a quelli persi in Turchia. Può darsi che dovremo sborsare un po’ di più per le auto giapponesi fabbricate in India rispetto alle auto giapponesi fabbricate nella vicina Turchia, ma sarà un prezzo assai minore che quello di correre rischi per la nostra esistenza e di trasformarci in uno stato vassallo di Erdogan.

(Da: Jerusalem Post, 7.9.11)

Nella foto in alto: Il premier turco Recep Tayyip Erdogan (a destra) con il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad

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